“Dopo Mao la verità l’ho trovata in Silvio”
20/05/2011 di Lou Del Bello
L’ex assessore allo Sport di Milano Aldo Brandirali ripercorre il suo percorso, dall’estremismo di sinistra a Comunione e Liberazione
Alcuni cinquantenni di oggi ricordano ancora i primi passi del ventenne Aldo Brandirali nella politica nazionale, quando militava nella Federazione Giovanile Comunista Italiana, l’organizzazione dei giovani del PCI. Aveva solo 21 anni, ma da Novara dove abitava con la famiglia si spostò a Roma, ragazzo di provincia, per seguire i suoi ideali e il Partito, a cui si tributava la lealtà dovuta a una seconda famiglia. Anche per questo, quando Brandirali rinnegò il PCI per fondare un movimento maoista, l’Unione Comunisti Italiani (marxisti leninisti), e quando alla fine del 1975 sciolse il movimento in odor di terrorismo, il suo comportamento parve eretico. Traditore: etichetta che si porta addosso ancor oggi.
SERVIRE IL POPOLO – Eppure, a ripercorrere la storia dell’uomo prima che del politico, ci si imbatte in un concetto che ritorna sempre, come un fine che Brandirali abbia mantenuto inalterato lungo l’intero viaggio, la vocazione a “servire il popolo”. Servire il Popolo fu il nome del giornale che egli diresse come militante maoista, servire il popolo è il suo scopo in quanto cattolico vicino a Comunione e Liberazione. Due mondi inconciliabili che Brandirali ha saputo attraversare, gli si deve, con trasparenza, senza rinnegare nulla ma mettendo sempre tutto in discussione. Il ritratto che emerge dalla sua biografia è quello di un uomo travagliato dai dubbi ma fedele a sé stesso più che alle ideologie di partito, anche se questo gli è costato la carriera, il potere e un bel mucchio di soldi. L’Italia è piena di personaggi che nel corso delle ultime decadi sono passati dal comunismo alla destra, la politica di palazzo e le televisioni ne ospitano alcuni illustri esempi. Persone che passando da uno schieramento a un altro ci hanno guadagnato parecchio; caso o dietrologia, sono passati da un posto di potere ad un altro. Brandirali è un esponente atipico della categoria, anzi difficilmente inquadrabile in qualsiasi categoria. Nato da padre partigiano, ha cominciato a lavorare dai 13 anni, passando per un gran numero di mestieri: falegname, idraulico, elettricista. Dopo lo scioglimento del movimento nel ’75, è ritornato al mestiere tecnico e per diversi anni, fino al ’91, non si è più occupato di politica. Oggi parla del cristianesimo con lo stesso rispetto con cui ricorda il periodo comunista, e abbandonato lo schieramento berlusconiano di cui ha fatto parte fino alla precedente legislatura, all’interno della giunta di Milano, si dedica alla formazione dei giovani e ad attività nel sociale.
COERENTEMENTE RIVOLUZIONARIO – “Servire il popolo” resta il suo motto. All’interno di un partito o di una ideologia religiosa, per lui significa comunque restituire qualcosa al proprio vicino e alla comunità. Nei suoi ricordi raccontati in questa intervista figurano le varie accezioni del termine come immagini d’infanzia, di gioventù e di maturità, spesso problematiche ma sempre profondamente umane. Certo un cattolico che si presenta sotto la bandiera del Bunga Bunga, che da un lato opera nell’accoglienza degli immigrati e dall’altro si schiera con un partito vicino al razzismo deteriore della Lega sembra incarnare una contraddizione insanabile. Sembra tradire. Ma il percorso di Brandirali, “coerentemente rivoluzionario” a costo di rimetterci la faccia e magari anche i vecchi amici, è coraggioso. I suoi esiti sono senz’altro opinabili, ma raggiunti (come lui stesso dichiara) con il cuore come bussola, e quindi degni di rispetto. Tuttora, il “traditore” parla volentieri del suo passato e della sua trasformazione spirituale senza vergogna, anzi restando aperto al dialogo soprattutto con chi non la pensa come lui. Continuando la sua ricerca della natura dell’uomo in tutta la sua imperfezione, restando umano.
La sua storia è certamente insolita: quali sono stati i momenti che hanno segnato un’evoluzione, un giro di boa che dal comunismo l’ha portata fino ad oggi?
I punti di rottura sono tanti, il passaggio alla fede è particolare e certamente il più importante, ma ce ne sono stati molti altri. La mia esperienza romana nella direzione nazionale della federazione giovanile del PCI, quando avevo solo 21 anni, mi ha mostrato gli aspetti negativi del comunismo italiano. Non riuscivo a sopportarne la doppiezza, mi faceva schifo. C’era un abisso tra l’ideale comunista e la piccola classe dirigente, istruita e detentrice di potere, e il popolo nella sua quotidianità.Diciamo che ero “coerentemente rivoluzionario”, se mai rivoluzionario sono stato.Un successivo momento di svolta nel mio percorso fu alla fine del 1975, quando i miei amici del movimento mi proposero di prendere contatto con le brigate rosse. Lì mi resi conto che l’estremismo rischiava di scivolare nella violenza, e decisi di uscire dall’organizzazione decretandone lo scioglimento. Da lì in poi ognuno ha proseguito singolarmente. In quegli anni cercavo di spiegarmi cosa non funzionasse nell’idea comunista. Finii per rispendermi che il comunismo non conosce l’uomo, non fa i conti con la sua natura fragile e contraddittoria, incapace di essere interamente coerente con una teoria rigida. Mi sono allora immerso in una ricerca. Ricordo che trovai la mia risposta il giorno che visitai le Grotte di Lescaux, in Francia. Di fronte a quei disegni fatti da un uomo vissuto migliaia di anni fa, mi sono domandato con chi stesse cercando di comunicare tramite le sue figure. Stava parlando con il Mistero. Da lì in avanti mi sono chiesto cosa fosse il Mistero. Per questo ho cercato l’incontro con Don Giussani, per riuscire a capire. Di lui sapevo solo quel poco che dicevano i giornali, ma la sua religione mi parve coerente con le mie idee: è una spiritualità che ha a che fare con il presente, e il quotidiano. Rende conto della fragilità e grandezza dell’umano.
Una delle espressioni chiave della sua filosofia di vita, che l’ha accompagnata dal comunismo di gioventù al cattolicesimo di oggi, è “servire il popolo”: come è cambiata nel tempo la declinazione di questo concetto?
Le ragioni originarie del ragazzino che a 13 o 14 anni comincia ad appassionarsi alla vita pubblica erano i miei amici, quello che mi accompagnava in bici a scuola, il postino che divideva la sua mancia con me. Da lì è nata la mia concezione delle relazioni umane, l’appartenenza a una comunità a cui devo dare il meglio di me. E’ stata la ragione che mi ha fatto percepire la doppiezza insita nel partito comunista. Questa intuizione fu parte della mia critica ideologica al comunismo ma si rafforzò anche nel sorprendente incontro con Don Giussani, che ha condiviso il mio sentire. Ci fu un’epoca in cui stavo cancellando la mia natura, dopo gli anni di piombo mi dicevo “basta con l’entusiasmo, basta con le esagerazioni”. Rinnegavo tutto quello che ero. Invece Don Giussani trovò bellissima l’idea di “servire il popolo” e la sostenne. Pensai: “ecco uno che mi conosce più di quanto mi conosco io”.
Come risponde a coloro che potrebbero tacciarla di trasformismo?
Per me questo è il problema di un’intera vita, la penna dei giornalisti tendeva sempre a dipingermi come un voltagabbana. Il dilemma è stato anche personale: ero io che sbagliavo, o stavo solo seguendo il mio percorso di ricerca? Oggi penso che la vita è essere coerenti non con una struttura ideologica, ma con il cuore. Sostengo di avere una coerenza di fondo, l’aver sempre seguito la verità.
Lei ha militato in Forza Italia: che giudizio dà un cristiano sulla filosofia lassista e a volte amorale propugnata dal Presidente, e sulla sua strategia comunicativa efficace ma basata sull’insulto e sulla volgarità?
Certo quando nel 1991 ho ripreso il rapporto con la politica che avevo lasciato anni prima, mi sono trovato davanti a Tangentopoli e alla questione del malaffare diffuso. A seguito di ciò, nel primo periodo ho cavalcato anche io il movimento moralista. Ma porsi dogmaticamente dalla parte dell’onesto contro tutto ciò che non era onesto a un certo punto mi è diventato insopportabile, perché non era realistico. Nel ’63, quando fui mandato da Roma a indagare sulla giunta di Mantova, ho avuto l’occasione di scoprire un sistema di tangenti tra socialdemocratici e comunisti: a corruzione c’era anche a sinistra. In politica lo spessore di una persona sta nella sua struttura morale ed esistenziale , a monte dell’attività di partito. Per me era importante che l’organizzazione desse libertà all’uomo nella sua esperienza personale: con Berlusconi avevo più possibilità di essere me stesso, perché Forza Italia nacque come un partito dalla struttura nuova ed aperta, senza una forte ideologia alla base. Mi sono trovato in una giungla, a volte piena di limiti e di furbizie, ma che almeno si mostrava apertamente per ciò che era.
Milano: all’indomani della discussa campagna elettorale per le amministrative, come giudica la scelta comunicativa della Moratti?
L’attacco a Pisapia durante il faccia a faccia è stato un errore, ma non il più grave. L’errore vero della Moratti è essersi identificata con la Lega, che si è dimostrata venditrice di fumo, un partito che vuole essere di governo ed opposizione insieme. il berlusconismo si è ridotto ad essere destra pura, si è chiuso fortemente: non a caso ho scelto di non presentarmi più a queste elezioni. Oggi mi dedico alla formazione dei giovani verso l’attività politica. Mi propongo di essere per loro testimone di un’esperienza, li metto in condizione d collegarsi a una storia. Soprattutto, cerco di dimostrare che si può far politica dal basso, gratuitamente e senza essere eletti, cioè senza identificare la partecipazione con il raggiungimento di un posto di potere.
La sua biografia annovera momenti di lavoro manuale, momenti di attività nel sociale e altri di attività politica vera e propria, all’interno di un partito. In che cosa si distingue, ed eventualmente qual è il valore aggiunto di un uomo come lei rispetto a un politico ordinario, proveniente magari da ambienti accademici?
Bella domanda. Bisognerebbe fare in modo che possa far politica anche chi non ha risorse e viene dal mondo del lavoro, spendendo in politica molto tempo che sottrae alla sua azienda. E’ un sacrificio, certo è diverso dalla comoda politica di poltrona e di alti stipendi. Eppure, non retribuire il lavoro politico significa andare a vantaggio di un’élite già ricca che può permettersi di lavorare gratis, e anche questo è sbagliato.