Apple, Google, Intel e Adobe alla sbarra per un cartello sui salari

Categorie: Economia

Al via la class action contro l'accordo segreto, «Don't be evil» si conferma una presa in giro

I vertici delle maggiori aziende della Silicon Valley si sono accordati personalmente e in gran segreto per tenere bassi gli stipendi degli ingegneri.



William Bill V. Campbell

COME I ROBBER BARON – PandoDaily ha pubblicato i documenti che descrivono gli accordi, e la loro genesi, tra Apple, Google, Intel, Adobe, Intuit e Pixar come «un’estesa cospirazione» in violazione dello Sherman Antitrust Act e del Clayton Antitrust Act, illuminando un clima degno dei tempi dei robber baron. I signori di Silicon Valley uniti contro i loro stessi dipendenti per massimizzare i profitti. I profeti del liberismo colti con le mani nel sacco a sabotare illegalmente il libero mercato con sistemi ottocenteschi, il «don’t be evil» ancora una volta smentito da condotte reali più vicine alla mentalità dei padroni delle ferriere che a quella esibita dai profeti dell’high-tech

L’ACCORDO SEGRETO – Nel 2005 Steve Jobs ed Erich Schmidt si sono accordati per tener bassi gli stipendi dei propri dipendenti, un accordo illegale che prevedeva di non assumere i lavoratori dei concorrenti, di condividere informazioni sulle loro retribuzioni e punire chi avesse violato l’accordo. Lo conferma una mail del febbraio di quell’anno, con la quale Bill Campbell, membro del board of directors di Apple e consigliere di Google informa Jobs che Schmidt «si è impegnato direttamente e ha bloccato con decisione tutti gli sforzi per assumere chiunque da Apple». Campbell è la figura chiave dell’accordo, l’uomo di cui forse Jobs si fida di più e che anche Schmidt tiene in grande considerazione. Più tardi il boss di Google comunicherà a Shona Brown (Sr VP for Business Operation) di tenere l’accordo segreto e di condividere le informazioni al riguardo «verbalmente, poiché non voglio creare una traccia cartacea con la quale poi ci possano far causa». Il che fa ritenere con ragionevole certezza che i partecipanti all’accordo sapevano di essere intenti a compiere un atto illegale che si sarebbe riassunto nel derubare oltre 100.000 ingegneri di Silicon Valley di parte dei loro salari.



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LI HANNO SCOPERTI DA TEMPO – L’esistenza di questi accordi è nota dal 2010, quando fu illuminata da un’indagine antitrust del Department of Justice (ministero della Giustizia), indagine che poi è diventata il trampolino per una class action sostenuta da 60.000 lavoratori e iniziata in origine da 5 progettisti software. che mira a recupera parte dei 9 miliardi di dollari che si stimano siano stati sottratti ai salari e imputati ai già ricchi profitti delle azienda partecipanti. La settimana scorsa la Corte d’Appello del 9th Circuit ha respinto l’ultimo di una serie di tentativi da parte di Apple, Google, Intel e Adobe di bloccare la denuncia, che sarà giudicata a partire alla prima udienza ormai fissata per il 27 maggio prossimo davanti alla Corte Distrettuale di San José. E non sono i soli, perché l’ex CEO di eBay e ora di HP (Meg Whitmans) è stato denunciato per un accordo simile, con Intuit e probabilmente Google, sia dal governo federale che dallo stato della California. Della partita sono anche Pixar e Disney.

GLI INCESTI DIRIGENZIALI – Accordi da rispettare in maniera ferrea, in un quadro nel quale Jobs esibisce atteggiamenti intimidatori con i concorrenti, minacciando la guerra ai piccoli come a Sergey Brin, che di fronte alle sue rimostranze licenzia il «recruiter» che aveva osato provare ad assumere un ingegnere di Apple. Un sistema di rapporti ad alto livello che sono cementati da cointeressenze evidenti, Schimdt è stato nel board of directors di Apple fino al 2009, il CEO d’Intel Paul Otellini è passato in quello di Google nel 2004, un impegno part-time che solo nel 2007 gli è valso 23 milioni di dollari. Anche Bill Campbell, ex CEO di Intuit è finito nel board of directors di Apple e consigliere ufficiale di Schmidt fino alle dimissioni nel 2010. Proprio Campbell, che godeva anche della fiducia di Jobs, sembra essere il collante di questo accordo.

UN’IDEA DI GEORGE LUCAS – Dai documenti emerge anche il ruolo dei George Lucas, che sognava un accordo del genere prima ancora di vendere Pixar  a Jobs, che poi la venderà a Disney. Lucas credeva che le aziende non dovessero farsi concorrenza anche nell’assumere il personale. Il suo sogno diventerà realtà con un accordo simile a quello oggi in causa, tra Lucasfilm e Pixar. Secondo le compagnie coinvolte l’accordo non serviva a comprimere i salari, ma secondo la corte invece l’evidenza documentale in tal senso è abbondante, al punto che comprende anche i software impiegati per calcolare i salari di figure professionali simili e contenere lo spread tra i meno pagati e i più pagati e le mail scambiati dai diversi uffici del personale in occasione di problemi o sconfinamenti.

SILICON BALLE – Niente che abbia a che fare con la meritocrazia o con la giusta retribuzione delle eccellenze, semmai un egualitarismo al ribasso che di certo non è compatibile con la leggenda del libero mercato e che è ancora più vistosamente ipocrita se si pensa che dai documenti emerge che per i cacciatori di teste di Google gli elementi migliori sono quelli che lavorano già con successo per concorrenti allo stesso livello e che non stanno neppure cercando un altro posto. Altro atteggiamento reale che smentisce la leggenda secondo la quale studi, curricula e capacità aprano le porte dei paradisi dell’informatica.

LOTTA DI CLASSE DALL’ALTO – Una brutta storia che getta infamia sugli splendidi cavalieri dell’informatica, l’idolo delle folle Steve Jobs nella realtà appare rozzo e avido e non diversi appaiono i padroni di Google, che si nascondono dietro lo slogan «don’t be evil» mentre intrallazzano con i concorrenti ai danni dei proprio dipendenti, più o meno come sono stati colti a intrallazzare con le agenzie governative ai danni degli utenti dei propri servizi. Una storia che per il momento sta passando straordinariamente sotto silenzio, quasi che la costituzione di un cartello illegale ai danni dei dipendenti da parte delle aziende tra le più ricche e profittevoli del mondo non meritasse nemmeno un articolo. E nemmeno un articolo è quanto hanno dedicato alla vicenda le maggiori testate mondiali, nonostante la dimensione della truffa si misuri in miliardi di dollari e nonostante il comportamento delle corporation coinvolte evidenzi un’ipocrisia tale da azzerare ogni pretesa di virtù e modernità da parte d’imprenditori che alla prova dei fatti prosperano traendo profitto da comportamenti illegali. Evidentemente i baroni dell’informatica possono godere di una  solidarietà di classe e di cointeressenze che s’estendono anche al settore dei media.