Ariel Castro: il mostro di Cleveland si è suicidato
04/09/2013 di Redazione
Ariel Castro, il ‘mostro di Cleveland‘ che per dieci anni ha tenuto segregate le tre ragazze Amanda Berry, Michelle Knight e Gina DeJesus nella sua casa, trasformandole in schiave del sesso, si è impiccato in carcere. Lo riporta la stampa americana, citando il Correctional Reception Center di Orient, nell’Ohio.
ARIEL CASTRO, IL MOSTRO DI CLEVELAND – Castro, di 53 anni, è stato trovato senza vita nella sua cella intorno alle 21:20 di ieri ora locale (le 3:20 di oggi in Italia). I medici dell’istituto penitenziario hanno tentato di rianimarlo, invano: l’uomo è stato trasportato quindi all’Ohio State University Wexner Medical Center, dove è stato dichiarato morto alle 22:52. Il portavoce del dipartimento di Riabilitazione e correzione dell’Ohio ha affermato che Castro è deceduto per apparente suicidio. Era stato condannato lo scorso agosto ad oltre mille anni di carcere per stupro, rapimento e sequestro di persona. Aveva scontato quindi soltanto un mese di reclusione, detenuto in un’unità di isolamento per la sua stessa incolumità, come ricorda l’Ansa.
ARIEL CASTRO: SI È SUICIDATO IL MOSTRO DI CLEVELAND – L’uomo rapì le tre giovani ragazze tra il 2002 e il 2004, quando avevano rispettivamente 14, 16 e 20 anni. Per anni riuscì a nascondere il loro rapimento, finché nel maggio scorso una delle tre ragazze, Amanda Berry, riuscì a rompere una porta, chiedendo aiuto ai vicini di casa. Castro fu arrestato la notte stessa della fuga della donna. Sulla sua condanna a più di mille anni di carcere pesavano oltre 937 capi di imputazioni, compresi rapimento e violenza sessuale. Durante il processo, l’uomo aveva cercato di difendersi, negando di aver abusato delle ragazze e insistendo sul fatto che la maggior parte dei rapporti sessuali fossero consensuali. «Io non sono una persona violenta», aveva spiegato, limitandosi ad affermare di non aver permesso alle tre donne di abbandonare la casa nella quale le aveva segregate. Nella stessa casa fu ritrovata anche una bambina, che si rivelò poi figlia dello stesso stupratore, in base agli stessi test del Dna. La madre della bimba di sei anni era la stessa Amanda Berry, una delle tre donne tenute prigioniere, insieme a Gina Dejesus e Michelle Knight.
ARIEL CASTRO SUICIDA E LA CASA DELLE TORTURE – Ariel Castro aveva accettato di patteggiare per i reati di rapimento e omicidio aggravato, escludendo così l’eventualità di una sua condanna alla pena di morte. In basa a quanto ricostruito dagli inquirenti durante il processo, Ariel Castro creò una sorta di camera della tortura nella casa che per dieci anni diventò un carcere privato nel cuore di Cleveland. Nonostante le accuse pesanti a suo carico, Castro, un conducente di autobus che viveva a pochi passi dove le giovani erano cresciute, nelle prime fasi del processo non si era dichiarato colpevole. Poi erano emersi i particolari macabri sui dieci anni di reclusione: le tre ragazze venivano picchiate, torturate e stuprate regolarmente dal proprio aguzzino, tanto che Amanda aveva anche dato alla luce una bambina. Al contrario, Michelle Knight avrebbe abortito per ben 5 volte dopo essere rimasta incinta e aver subito le sevizie di Castro. Tanto che anche il sequestratore, alla fine, aveva spiegato di essere “pienamente consapevole”, oltre che acconsentire alla condanna. Lo scorso mese la “casa delle torture” era stata rasa al suolo: la decisione di abbattere l’abitazione-carcere faceva parte dell’accordo che aveva risparmiato al sequestratore la condanna alla pena capitale. Prima che venisse demolita, con una sorta di cerimonia, Michelle aveva liberato in aria dei palloncini, per non dimenticare quanto accaduto. I procuratori avevano raccontato come Castro, condannato la settimana prima, avesse pianto, parlando di “molti momenti felici” passati nella casa con le tre donne, riuscite a salvarsi il 6 maggio scorso dopo che Amanda Berry era riuscita a sfondare una porta, chiedendo aiuto ai vicini.
ARIEL CASTRO E LE TRE RAGAZZE – Poche settimane prima della condanna di Castro, le tre ragazze avevano deciso di comparire per la prima volta in tv: nella prima apparizione pubblica, di fronte alle telecamere del network statunitense Abc, le tre vittime degli abusi di Ariel Castro avevano ringraziato tutti coloro che avevano offerto loro aiuto e raccontato la loro felicità per la libertà ritrovata. «Ho fatto un viaggio di andata e ritorno all’inferno – aveva detto Michelle – ma sono abbastanza forte per camminare con il sorriso sulle labbra e i piedi ben piantati per terra». La stessa donna, che oggi ha 32 anni, durante il processo aveva affrontato il proprio aguzzino: in tribunale: «Sono stata costretta a undici anni di inferno, ma il tuo è appena iniziato, morirai un poco ogni giorno», aveva affermato la donna. «Piangevo ogni notte, Gina, la mia compagna, mi ha salvato la vita. Stavo morendo per gli abusi che mi infliggevi», aveva aggiunto, rivolgendosi allo stupratore. La donna aveva poi spiegato di poter perdonare, ma non dimenticare quanto accaduto in quella che l’opinione pubblica americana ha ribattezzato come “casa delle torture”. Il racconto delle torture, durante i dieci anni, era impressionante: Castro fu descritto dalle tre come un personaggio crudele, che privilegiava Berry in quanto madre dell’unica figlia sopravvissuta alle numerose gravidanze delle tre donne e che invece si accaniva con particolare sadismo sulle altre due, non solo con le violenze, ma anche mangiando con gusto di fronte a loro mentre le costringeva alla fame. Dieci anni di digiuni, abusi e sevizie sessuali, rimasti per lungo tempo segreti, prima della fuga di Amanda, l’arresto e la condanna di Ariel Castro, ieri notte morto suicida in carcere.