Captain America: Civil War. A Steve Rogers non je dovete rompe er… – RECENSIONE

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR –

Era davvero difficile non tirare fuori da Civil War, miniserie Marvel di sette numeri, firmata da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven, un capolavoro. Anzi, prima di aver visto Captain America: Civil War potevamo affermare che fosse impossibile. Il concentrato di emotività, politica, filosofia, riflessioni sui massimi sistemi e capacità di mettere l’un contro l’altro superuomini e superdonne costringendoli a fare i conti con le loro superfragilità, costituivano un materiale straordinario. Sia che ci si concentrasse solo sullo scontro Iron Man-Captain America, con Spider Man in lotta con se stesso e con i suoi sentimenti e i suoi principi, sia che ci si rivolgesse alla piattaforma politica e di principio su cui si scatena il conflitto fratricida – ovvero: perché un consesso privato di persone con superpoteri dovrebbe agire al di sopra di ogni legge? O perché altrimenti dovrebbero sottostare alla volubilità e alle convenienze della politica? – non poteva non uscirne qualcosa di speciale. E invece no, due ore e mezza di narrazione piatta, di intuizioni senz’anima, di eventi trasposti sul grande schermo senza la potenza evocativa e visiva del fumetto. Un adattamento anche disordinato e, soprattutto, privo di un nucleo forte di contenuti, di personaggi, di dialoghi, di avvenimenti cruciali.

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR, LA TRAMA –

La questione è semplice. In una delle loro incursioni gli Avengers, e in particolare Scarlet (Elizabeth Olsen), colei che ha meno controllo sui suoi poteri, salvando Capitan America da morte sicura condanna undici innocenti alla morte, per un errore. Dicesi fuoco amico, una delle cause di morte più frequenti nelle guerre a cui partecipano gli Stati Uniti, la metafora è chiara e dilaniante. Media e politica si scatenano, trascinati dal re di Wakanda – i defunti sono del famoso stato che nell’Universo Marvel produce il vibranio -: comincia una campagna che vuole rinchiudere nelle regole Onu gli Avengers. Questo provoca una spaccatura notevole tra i supereroi, costretti a un accordo che li divide. I due leader delle opposte fazioni, ovviamente, sono Iron Man (Robert Downey Jr), che degli Avengers è finanziatore e capo, e Capitan America (Chris Evans), leader sul campo e simbolo. Due prime donne, non si sono mai amati troppo, ma avevano trovato sempre un modo per convivere. Questa volta no e a complicare le cose c’è Bucky Barnes, amico del cuore e sodale in passato del Capitano – e qui i sottotesti omosessuali da western d’antan si sprecano in diverse scene, e son forse la cosa più interessante anche se piuttosto anacronistica – divenuto, a causa della perfida Hydra, l’implacabile Soldato d’Inverno. Uno che conosce bene i due superboss del Bene, anche se Iron Man ancora non lo sa. In tutto c’è un umanissimo nemico dei Vendicatori che vuole distruggerli (alla fine si scoprirà perché) per questioni personali e con machiavellico cinismo non esita a far morti in quantità perché ciò accada. Insomma, una soap opera con gente che potrebbe distruggere una nazione. O supercialtroni divertenti con abilità fighissime come Spider Man (Tom Holland) e Ant-Man (Paul Rudd). Tutta proiettata – come sempre più spesso nel caso dei Marvel film – a quell’ultima scena, sui titoli di coda, la firma della Casa delle Idee su grande schermo: ma in questo caso, è mal riuscita anch’essa.

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR, IL TRAILER –

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR, LA RECENSIONE –

Sui fratelli Russo, registi di Captain America: The Winter Soldier e ora di Captain America: Civil War, andrebbe fatto un film. Scrissero e diressero Pieces, il primo lungometraggio, con finanziamenti di compagni di corso e una carta di credito. Lo vide Soderbergh a un festival, che volle produrre il loro vero esordio. Welcome to Collinwood, un arguto e interessante remake de I soliti ignoti. Gran bel lavoro, ma per 4 anni non toccano palla e si buttano su Tu, io e Dupree, commedia con qualche buona intuizione ma senza guizzi. Poi, mentre facevano bene tv, il secondo colpo di fortuna, la Marvel. E lì, non a caso, riescono a far bene Ant-Man, ben più nelle loro corde grazie al personaggio ironico, scombinato, fuori dai canoni supereroistici, che quelli con il granitico eroe che lo è diventato ancora di più dopo l’ibernazione.
Ci provano, qui, a metterci un po’ di gioco, con Paul Rudd, di sentimento e di melodramma, come è nelle loro corde, ma vengono schiacciati dall’enormità del materiale da inserire nel film, perché sia anche propedeutico ai prossimi e agli eventi della miniserie da condensare in 150 minuti. Non sanno cavalcare l’iconografia, la complessità dei personaggi, le loro relazioni pericolose, a volte sanno riempire di senso quelli più marginale (Visione ad esempio, ma si perdono per strada La Vedova Nera, Occhio di falco, Falcon, lasciando a James Rhodes una scena madre e a Pantera nera un ruolo involontariamente comico), ma nello sguardo d’insieme rincorrono la trama senza la capacità di restituirne l’epica, l’etica, la narrazione serrata e i conflitti più intimi, privilegiando gli scontri tra i protagonisti, golosi da mettere in scena ma che non restituiscono il senso più profondo e rivoluzionario di ciò che si racconta. E, francamente, anche in quel senso, abbiamo visto molto di meglio: non riusciamo a entrare dentro le battaglie con testa, cuore e anima, né a rimanere ipnotizzati da una regia brillante o da effetti speciali da urlo, rimaniamo spettatori distanti di coreografie stanche.

E soprattutto falliscono – ma qui la colpa è soprattutto degli sceneggiatori Markus-McFeely – nella costruzione dei protagonisti-antagonisti. Captain America alle prese con la sua incoerenza poteva essere presentato con molte più sfaccettature o, come nel fumetto, con quella granitica convinzione che lo rende un’icona Usa. Nel Civil War su pagina, infatti, lui assume una posizione di principio che va oltre la ragionevolezza, fideistica, tipicamente americana. Nella contraddizione di chi si sente Buono al di là del bene e del male si innestano una serie di dolorose reazioni, allontanamenti, avvicinamenti che rendono la saga straordinaria. Così come l’Iron Man politico, dedito al compromesso (e forse compromesso), stratega sulla scrivania e muscolare nello scontro con i suoi compagni d’avventura, rendeva il tutto esplosivo, lacerante persino per i lettori.
Qui, invece, a un livello sicuramente più alto, si compie lo stesso errore – senza le derive trash e demenziali di una scrittura, lì, sciatta e grottesca – di Batman v. Superman. I due sono presentati come divi capricciosi: uno vuole lavarsi la coscienza in maniera infantile e forse acquisire meriti presso il Potere costituito, l’altro è disposto per il fratello d’armi e per una posizione piuttosto debole e apodittica, a buttare all’aria tutto. Non c’è approfondimento, né uno sguardo laterale, come invece in molti altri film Marvel abbiamo apprezzato.

Captain America: Civil War, insomma, lo ricorderemo solo, direbbe Samuele Bersani, come la copia di mille riassunti.

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