Abdelfetah e le “Cicogne nere” vi spiegano, davvero, cosa vuol dire esser un rifugiato
11/12/2017 di Stefania Carboni
“Gli uomini che mi hanno salvato la vita in quel momento non sono semplici addetti della guardia costiera italiana, ma sono qualcosa di più grande, come se in quell’istante, avessi in solo momento incontrato tutta l’umanità”. Abdelfetah Mohamed lo scrive, nero su bianco. Lui, attivista eritreo nato nel campo profughi di Wadsharifi (Sudan), durante la colonizzazione etiope, racconta tutta la sua Odiseea in un libro. Ha vissuto tra Eritrea, Sudan e Libia, prima di intraprendere il viaggio verso l’Europa. In Italia lavora oggi come mediatore culturale e partecipa alle operazioni di recupero di migranti nel Mediterraneo. È iscritto al corso di scienze del servizio sociale all’università di Catania. Racconta il suo viaggio ne “Le cicogne nere” (di Istos Edizioni, a cura di Saul Caia) spiegando la sua fuga da uno Stato, l’arrivo in un’altra terra dopo tanto vagare e una rinascita. Una rinascita vista non dal punto di vista di chi accoglie ma di chi viene accolto.
DAMMI UNA DATA DI NASCITA
Così spesso un fenomeno delicato, come quello sulle vite umane, viene raccontato in modo distorto. Un esempio? Quando Abdelfetah arriva in Italia gli agenti di polizia gli chiedono la sua età. «Non la sapevo. Da quel momento mi sono sentito che dovevo dare una data di nascita, una cifra. La data di nascita è una cosa importante sì, ma per me poteva finora non aver significato nulla. Sono priorità che cambiano, incredibilmente, da un posto all’altro del mondo». Così sceglie il 26 dicembre del 1981. Quando il ragazzo arrivò a Lampedusa era solo un numero, “1087”. Una cifra. Non conosceva la sua reale data di nascita perché aveva vissuto in un campo profughi, non conosceva la distinzione tra nome e cognome. «Ho capito che si deve raccontare una storia quando si ha davanti qualcuno. Sembra come la fabbricazione di una persona. Io ironicamente la chiamo “il riciclaggio”, dalla data di nascita al cognome. Io il mio cognome per esempio l’ho scoperto qui, in Italia». «Sono tutte cose che volevo raccontare nel mio libro. Non è uno sfogo ma un invito a tutti, nel raccontare la propria storia».
LA LIBIA E LE PRIGIONI ETERNE
Spesso se non si racconta non si capisce. E si travisa. Nel corso del lungo viaggio, Abdel rievoca moltissimi momenti vissuti in prigionia, a cominciare dai centri di detenzione dell’Eritrea fino alle mezra in Libia. Le violenze e le torture subite, le urla degli altri compagni di celle, quelle delle madri e dei loro bambini, in attesa di pagare il trafficante di turno. Lì, in quelle mura, l’unico pensiero che hai è sopravvivere. Abdel ci riesce, leggendo i “muri della memoria”, ricordi che hanno lasciato altri prigionieri detenuti nelle stesse condizioni. Scritte sui muri che sono messaggi per chi pensa di non esser più nessuno. Abdelfetah ricorda come in Libia questi centri esistano, da sempre. «Appena arriva un video le persone scoprono questi orrori. Ma succede da anni. Nel mio libro lo racconto».
Una attesa ben raccontata da Abdelfetah è quella del “permesso di soggiorno”. «Forse quello che non hanno capito fino adesso le persone di questo paese – scrive Abdel nel suo libro – è che la gente non viene in cerca di un permesso di soggiorno o di un documento, ma viene a cercare una vita dignitosa, negatagli nel suo paese d’origine, ma che non potrà avere nemmeno qui». Le pagine proseguono con i mesi passati nei centri d’accoglienza, e quelli ai margini, mentre si dorme nei parchi o nascosti nelle stazioni ferroviarie. Spesso l’immigrazione in Italia diventa strumento di propaganda politica. «Sarebbe da neutralizzare questo aspetto dal dibattito politico – ci spiega – bisognerebbe affidarlo a persone esperte», sottolinea. Solo così si potrà parlare seriamente di accoglienza e trovare soluzioni migliori. Per questo tra tanto parlare serve raccontare. «Questo libro – spiega – è cresciuto con me, in questo viaggio. Si tratta di un tentativo per sollevare altri punti di vista, spesso non raccontati». «Spesso si parla del migrante come se fosse una persona con disabilità. Si parla tanto di gestione delle cooperative ma come funziona la vita quotidiana di chi si è integrato e di chi non è riuscito a integrarsi?».