Cosa c’è nella mente di uno psicopatico?

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Meccanismi di ricompensa. Diversità cerebrali. Come funzionano le personalità disturbate?

“Siamo tutti un po’ matti”: si sente dire ogni tanto, come un luogo comune, un adagio abusato. E’, in effetti, così? Cosa c’è in una mente disturbata? Come funziona un cervello deviato? Gli ultimi studi in materie psicologiche, ci dice un esperto che lavora in un ospedale romano e che rincontreremo alla fine del nostro excursus, stanno prendendo una piega intimamente diversa da quella finora seguita. Si stanno occupando dell’analisi neurofisiologica, del funzionamento strutturale del cervello, “che interroga e chiede modifiche ed integrazioni alla normale psicologia comportamentale”. Da questi studi, qualche rivelazione importante.



LA MENTE PSICOPATICA – Salta dunque fuori che uno psicopatico conosce bene quanto gli altri la differenza fra bene e male. Fra ciò che è opportuno fare, e ciò che invece è moralmente evitabile.

 



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Ha chiari i concetti di orientamento comportamentale. Ma non se ne preoccupano. Il loro cervello non è strutturalmente in grado di percepire il danno che sono in grado di arrecare alle altre persone; i meccanismi di repressione della condotta immorale e di ricompensa per le azioni gratificante, nonché i meccanismi che governano l’impulso cerebrale alle azioni istintive, sono malfunzionanti rispetto ad una persona “non psicopatica”.

REGOLE DI COMPORTAMENTO – Nell’ultimo numero di Science Illustrated viene affrontato il tema in maniera molto estesa. Tutti gli ultimi esperimenti che hanno analizzato dal punto di vista comportamentale, neurologico o medico il cervello e l’atteggiamento del cosiddetto “psicopatico” sono riportati con dovizia di particolari. “Gli psicopatici sanno di rompere tutte le regole sociali di comportamento e di compiere qualcosa di moralmente inaccettabile, ma ciò non li tocca nella stessa misura in cui tocca gli altri, e non li fa sentire in colpa”. Come è possibile? Il punto è, sembra, nel funzionamento del cervello: nel 2010 all’università di Albuquerque la dottoressa Harenski “ha pubblicato sul Journal of Neuroscience” uno studio “nel quale sono state eseguite scansioni cerebrali su detenuti psicopatici e non , mentre venivano mostrate loro immagini con diversi gradi di contenuto morale”.

L’ESPERIMENTO – C’erano foto di eventi riprovevoli, come l’attacco alle Torri Gemelle; eventi spiacevoli o diversamente fastidiosi, ma che però non avevano nessuna carica di negatività (come un bimbo coperto di api) e immagini intrinsecamente neutrali. “I soggetti sottoposti al test dovevano guardare le foto e valutare in che misura esse rappresentassero delle questioni morali”.

Dal punto di vista dell’elaborazione razionale, le risposte fra psicopatici e non sembravano essere analoghe: “La sorpresa è arrivata quando gli scienziati sono passati a studiare le scansioni cerebrali”. Salta fuori insomma che “nei detenuti non psicopatici si sono attivate due piccole aree della corteccia cerebrale quando essi hanno visto immagini moralmente offensive, mentre le immagini neutrali o amorali hanno provocato una minore attività. Il cervello degli psicopatici non distingue fra i tre tipi di immagini”, visto che “nel lobo temporale anteriore tutti e tre i tipi di immagini hanno scatenato un’elevata attività, che nei soggetti non psicopatici è stata causata solo dalle immagini moralmente offensive”.

EMPATIA – Per contro, continua Science, “nessuna delle immagini ha causato una qualche attività nell’altra area, la corteccia prefrontale e ventromediale” ritenuta essere coinvolta nell’elaborazione della paura “e nella capacità di prendere decisioni rischiose”. Quindi, in breve, la soglia di allarme che nei soggetti normali viene attivata soltanto quando ci si rapporta con immagini moralmente riprovevoli, per i soggetti psicopatici è sempre attiva, così che queste persone non sono in grado di capire quando stanno andando “oltre”, anche se, razionalmente, lo sanno. Il problema è a livello automatico, inconscio, di empatia: “Questi soggetti sono decisamente meno capaci di comprendere e confrontare le emozioni di più persone nello stesso momento. A parte questo, si sono dimostrati solo leggermente peggiori nel gestire le emozioni generate “dal pensiero logico”.

AZIONI CRIMINALI – Ma perché questi soggetti “compiono poi crimini efferati?” Discovery Channel ha di recente mandato in onda un potente documentario che racconta la strage di Oslo e dell’isola di Utoya: protagonista, il nazista Anders Behring Breivik. I migliori psichiatri e criminologi d’Europa hanno discusso il profilo mentale criminale del mostro neonazista norvegese.

Ammesso che Breivik possa essere definito come un soggetto psicopatico, cosa spinge un cervello psicoide a comportarsi in questo modo? La spiegazione potrebbe essere nella dopamina. Vi sono due profili di psicopatia infatti: un lato “passivo” che comprende la mancanza di empatia e senso di colpa rispetto alle altre persone; poi c’è il profilo “attivo” che comprende caratteristiche come “mancanza di autocontrollo, irrequietezza e comportamento irresponsabile”. Il Nucleo Accumbens è il centro del cervello “coinvolto nel processo di ricompensa: quando il NAcc libera la dopamina, un potente neutotrasmettitore, si è stimolati a cercare una ricompensa. Così un NAcc particolarmente attivo stimola ad agire impulsivamente senza dare ascolto alla ragione”.

DOPAMINA – Negli psicopatici questo meccanismo scatta “nel momento in cui compiono un atto impulsivo senza prima pensare alle conseguenze. In sintesi, dunque, il soggetto psicopatico-violento può diventare un pericoloso criminale in quanto il suo cervello funziona male, e “non è in grado di decodificare, di realizzare che il suo comportamento minaccioso mette la vittima in una situazione spiacevole”. Non che non lo sappia: ma “non se ne preoccupa”, e di più “questa situazione innesca un rilascio di dopamina nello psicopatico, spingendo così a ripetere le minacce o forse anche a compiere il crimine”. Insomma, una macchina perfetta a servizio del proprio appagamento personale. Azioni violente che fanno star bene lo psicopatico, male qualcun altro: ma per lo psicopatico, quest’ultima caratteristica non è naturalmente rilevante. Di qui, l’etichetta di “cattivo”, intrinsecamente malvagio.

SIAMO TUTTI UN PO’ MATTI? – Ma è poi così? Le persone psicopatiche, con un cervello dunque che funziona in maniera diversa, sono condannate ed imprigionate nei loro schemi comportamentali? C’è uno psicopatico potenziale in ognuno di noi, o la diversità cerebrale mette la persona comune al riparo da “rischi” del genere? Ci risponde al telefono Giulio Scoppola, un passato in psichiatria e attualmente dirigente dell’unità ospedaliera di Psicologia clinica al Santo Spirito di Roma. “No”, ci dice: “Certamente, nello sviluppo cerebrale, nei vari stadi del bambino si verificano delle esperienze che se poi ristudiassimo il soggetto in età adulta mostrerebbero delle cicatrici di malfunzionamento di alcune aree del cervello. E’ vero dunque che ci sono persone che hanno una grande variabilità nella capacità di sentire l’altro; ma normalmente le persone non vengono così tanto offese nel loro sviluppo. Nei casi psicopatici c’è qualcosa di più, organicamente c’è un cervello diversamente strutturato. E si determinano molto di più i comportamenti e le strategie che gli individui mettono in atto per potersi addattare all’ambiente. La persona offesa nel suo sviluppo neurofisiologico,magari per le esperienze di vita, tenterà naturalmente di costruire intorno a queste aree degli adattamenti cognitivi, emozionali, comportamentali; ci potrebbe essere un rifugio negli stupefacenti, o nel superamento del limite. Ognuno di noi tenderà a sentire i propri handicap, a doverli affrontare, ad adattarsi a questi con dei bypass, delle strategie di superamento per non rimanerne imbrigliati. E così i comportamenti antisociali e psicopatologici che ci possono sembrare strani, sono il sintomo di un cammino che queste persone hanno fatto.  Quello però è l’unico modo che hanno trovato per andare avanti”.

UNA SPERANZA? – Ancora: “No, le persone non sono condannate, mai. Noi sappiamo che il cervello ha una sua plasticità, comunque, anche se è come maneggiare creta e quindi è difficile, sul lungo periodo, cambiare. Piano piano che i danni vanno avanti le persone hanno una maggiore rigidità e meno speranze di adattamento e cambiamento. Bisognerà così andare oltre i percorsi psicoterapeutici classici, anche perché queste sono persone abituate a svicolare da tutta una serie di prassi terapeutiche e cliniche e da un tipo di relazione emozionale come è quella psicoterapeutica. Sono soggetti mettono in crisi queste terapie, anche perché spesso le relazioni terapeutiche si risolvono in delle relazioni di pressing, di costrizione: i pazienti vengono come pressati in una esperienza terapeutica. Ma in questa relazione, finanche per costrizione, mentre il soggetto ripercorre piano piano la sua esperienza di vita, noi sappiamo che la struttura del cervello gradualmente si modifica. Così, con tutte le difficoltà del caso quando ci si approccia a soggetti adulti, una speranza c’è”.