Cosa ne è stato degli anni ’80?

Categorie: Economia

Mentre sul web si assiste alla rievocazione di quelli che sono stati i caratteri salienti di uno dei decenni tra i più difficili della storia mondiale, almeno in Italia le marche protagoniste dell'epoca sono finite nel dimenticatoio, segno che nonostante le rievocazioni il tempo passa per tutti

Negli ultimi tempi si assiste sulla rete ad un‘esplosione di quella che è a tutti i costi una rievocazione di ciò che sono stati gli anni ’80. La televisione ci ripropone ciclicamente i film con protagonisti Jerry Calà, il Dogui, I ragazzi della Terza C ed altri programmi che hanno fatto la storia della televisione dell’epoca mentre i marchi che hanno caratterizzato quel momento sono a vario titolo svaniti nel nulla o quasi.



OTTANTANOSTALGIA – Non solo. Le reti televisive di tanto in tanto lanciano gruppi come i Duran Duran, gli Spandau Ballet, i Cars, i Pil ed a livello italiano i Righeira, il primissimo Luca Carboni, Scialpi, Spagna. Nelle varie fotogallery che affollano i principali social network vengono caricate fotografie che riprendono alcune delle icone dell’epoca, come il personaggio protagonista degli spot Nesquik, il fornaio antesignano di Antonio Banderas per la Mulino Bianco, i succhi di frutta Billy, il Calippo Twister dell’Algida e varia paccottiglia tecnologica tra cui l’orologio da polso che si ricarica con l’acqua. Ad un occhio disattenti potrebbe sembrare questa cultura del ritorno, dedicata sopratutto ai trentenni nostalgici sapientemente evocati nelle storie di Zerocalcare, se sfruttata nel modo giusto potrebbe avere un ritorno commerciale.



RICORDI LIMITATI – Invece no. Perché almeno dal punto di vista economico la storia ha fatto il suo tempo e gli anni ’80 sono considerati passati da almeno 23 anni. Perché è vero che si assiste ad una continua condivisione di fotografie, immagini, pubblicità caricate su youtube o programmi televisivi come 80 nostalgia, ma la rievocazione storica sembra limitarsi alla lacrimuccia davanti allo schermo del Pc che cade appena si vede l’immagine di un gioco all’epoca preferito più di ogni altra cosa. Ma guai a riproporre i marchi del passato, dimenticati come accade alle cose che invadono la vita privata di una persona, l’affollano e poi se ne vanno così come sono arrivati, lasciando un ricordo quasi impercettibile.

SERGIO TACCHINI DIVENTA CINESE – Pensiamo a marchi che hanno fatto la storia dell’Italia dei paninari, come ad esempio Sergio Tacchini, El Charro, Americanino, Naj Oleari, Enrico Coveri, Best Company. Marchi che rappresentavano il non plus ultra della produzione industriale italiana dell’epoca ed oggi finiti nel dimenticatoio. Partiamo dalla Sergio Tacchini. La Stampa ci spiega che il prossimo 30 settembre chiuderà anche l’ultimo negozio monomarca della società specializzata in abbigliamento sportivo presente a Gallarate. Chiuso nel frattempo lo showroom allestito nell’outlet di Vicolungo, in provincia di Novara, mentre nel 2012 chiuse lo spaccio di Caltignaga, sede del primo stabilimento fondato dal tennista che ha lasciato tutto ai cinesi a causa del debito.



LO SPETTRO DELLA CASSA INTEGRAZIONE – La linea produttiva è stata cancellata e sono rimasti solo i settori amministrativo e commerciale. Tutta colpa della cessione ad una finanziaria cinese, come sottolineato dal responsabile tessile per la Cisl di Novara Domenico Turri. La produzione è stata trasferita all’estero. I cinesi entrarono in azienda nel 2007 salvandola da un debito di 70 milioni di euro. La società è la Hembly International Holdings, specializzata in outsourcing e distribuzione di abbigliamento. La società passa poi di mano ad un’altra holding cinese, la H4T, che creò a sua volta una nuova società, la Wintex, che si occupava della valorizzazione del marchio. I cinesi pagarono la società 42 milioni di dollari ed ora, dopo che le grandi firme del tennis hanno abbandonato il marchio piemontese, restano solo 60 dipendenti -prima erano 300- e lo spettro della cassa-integrazione aleggia sempre di più.

L’ASTA PER EL CHARRO ED AMERICANINO – Almeno Sergio Tacchini cercò di competere con i paesi emergenti anche nei primi anni 2000 grazie alla sponsorizzazione di un trimarano oceanico. La delocalizzazione e l’aggressività di marchi come Nike ed Adidas ha fatto il resto. Certo non è andata meglio ad altri due simboli dell’Italia degli anni ’80. Parliamo di El Charro ed Americanino, venduti all’asta fallimentare. All’epoca i paninari -e non solo- dovevano possedere vestiti appartenenti ad una delle due marche, meglio se di tutti e due. I tempi però passano per tutti ed i fasti del passato sono soltanto un ricordo. Il tribunale di Arezzo ha disposto la vendita all’incanto dei due marchi a causa del fallimento della società che li possedeva, la Meta Apparel dei fratelli Sassi.

LA PERDITA MONSTRE – Il bilancio che ha ucciso l’azienda è stato quello del 2011, con perdite complessive pari a 22,7 milioni di euro ed è finita in liquidazione dopo aver richiesto il concordato preventivo. Il marchio El Charro è partito da una base d’asta di 30 mila euro -visto che riguarda la divisione che si occupava dei cappelli e delle cinture di stoffa- mentre Americanino è “scattato” da 960 mila. Sportswearnet aggiunge che il bilancio del 2011 ha visto un ricavo delle vendite di 14 milioni di euro, inferiori ai 19,7 del 2010, anno in cui venne registrato un utile di 90.000 euro. La perdita dell’anno successivo ha però tagliato le gambe all’intero gruppo, ed i due marchi di fatto sono spariti. O meglio, viene garantita al momento la permanenza sul mercato delle cinture col “fibbione”, che fanno capo ad un’altra società.

LA FINE DI ENRICO COVERI – La Nazione aggiunge poi che già lo scorso ponte di Ognissanti, la società aveva fatto sapere a tredici dipendenti di non ripresentarsi al lavoro a causa della grave situazione finanziaria del gruppo ed è in quel periodo che venne presentata la richiesta di concordato preventivo. Un altro marchio famosissimo all’epoca e poi ridimensionato fu Enrico Coveri. In questo caso la botta più grave venne data dalla scomparsa dello stilista, avvenuta il 12 agosto 1990 nella sua casa di Firenze, probabilmente per un ictus cerebrale che lo ha colpito all’età di 38 anni. La sua moda era fatta di colori, di allegria, di divertimento e di lustrini. Oggi, come ci ricorda il Sole 24 Ore, la fama di quello che venne definito l’enfant prodige della moda italiana resta solo un ricordo.

LA MOSTRA IN SUO ONORE – Nel 1988 siglò un accordo commerciale in Giappone dal valore di 100 milioni di dollari in sei anni ed era osannato in tutto il mondo. Oggi invece, come ci ricorda il Sole 24 Ore, il timone dell’azienda venne preso nel 1990 dalla sorella Silvana con il figlio Francesco Martini che nel 1996 iniziò a disegnare personalmente la sua griffe You Young Coveri, diventando poi responsabile creativo dell’azienda. Le cose vanno bene grazie all’impegno di Martini ma il passato è irripetibile. A certificarlo l’organizzazione a Prato, nel 2012, come ricorda Gq, di una mostra dedicata allo stilista nato nella città toscana nel 1952 e ribattezzato “uomo del colore”, in grado di avere tra le sue testimonial Claudia Schiffer e Naomi Campbell, fotografate da Oliviero Toscani.

IL MARCHIO BEST COMPANY – Un’altra Italia, e forse un altro mondo. Lo stesso che ha riguardato il marchio “Best Company”. Come dimenticare le felpe colorate, le cinture con le fibbie giganti -un must per l’abbigliamento dell’epoca- e quella scritta in corsivo colorata di verde e con un pino che campeggiava su maglie e pantaloni? L’azienda nacque nel 1970 grazie al genio di Olmes Carretti e divenne, come spiega Dimenticatoio.it, il marchio di fabbrica -un altro- dei paninari. Con il marchio Carretti volle portare i tessuti stinti nel mercato italiano. Il prodotto era destinato prima al pubblico maschile ma con il passare del tempo l’offerta incluse anche donne, bambini ed accessori come diari, libri, scarpe e profumi. La marca venne usata anche per griffare una macchina, per la precisione la Peugeot 205 “Best Company”.

UN SIGNIFICATO PER TUTTO – Su Facebook compare una pagina che ci dice qualcosa in più di questo marchio, che voleva mandare un messaggio ad ogni occasione, circostanza confermata da Carretti in un’intervista di allora: ”

Il pino (simbolo della Best Company), era un messaggio ecologista già allora. Oltre alla grande qualità dei capi e alla loro indistruttibilità data da una mischia di materiali, la forza di Best Company è stata questa, il saper dare dei messaggi. Per ogni nuova collezione, si stabilivano degli argomenti da affrontare, spesso dettati dal momento politico, bisognava puntare sulla grafica, ben visibile e con contenuti. Sulle nostre felpe affrontavano tematiche che la maggior parte dei consumatori non aveva la possibilità di raggiungere, come ad esempio un evento particolare in un’altra parte del mondo: chi aveva la possibilità di vederlo? Una maglietta pubblicitaria poteva soddisfare il desiderio di esserci stato. Un’operazione di marketing notevole per gli anni’80

Finita la moda degli anni ’80, è toccato anche a Best Company sparire. La marca venne venduta al gruppo Fin.part che la rilanciò salvo poi venderla al marchio Cisalfa nel maggio 2002 per tre milioni di euro. Ed ogni tanto il marchio fa capolino, anche se il prezzo degli indumenti -vedi quelli in vendita in un centro commerciale della provincia di Milano- non sono più quelli dell’epoca. Ed Olmes Carretti? E’ ancora in pista, come spiega l’Eco di Bergamo. Sarà infatti stilista per Tortuga Academy, marchio della Indes Retail di Medolago, in provincia di Bergamo, puntando sul colore per indumenti da mare e casual.

LA BOLLA NAJ – OLEARI – Segno che in fondo gli anni ’80 possono tornare per davvero, ma che questo dipende da chi ha generato il loro successo. Infine ricordiamo cosa è successo a Naj – Oleari, fondata nel 1916 da Riccardo Naj – Oleari e diventata negli anni ’80 un marchio d’importanza mondiale. L’apice si raggiunse nel 1985 quando i colori ed i disegni accattivanti dell’azienda nata per realizzare abbigliamenti sacerdotali divennero un must per giovani ed adolescenti. Il fatturato raggiunse il top nel 1990, a 35 miliardi di lire, sestuplicato rispetto ai sei miliardi del 1985. Nel ’90 si dovettero poi aggiungere 20 miliardi per i prodotti in licenza, al punto che nel 1991 i negozi in Italia erano circa 50 mentre erano 10 quelli nel resto del mondo. Ma la discesa fu altrettanto vertiginosa così come fu la salita.

UNA PAGINA DI STORIA – Il marchio perse rapidamente tutta la sua importanza, tanto che nel 1996 venne acquisito da Bottega Verde e come dimostra la pagina Facebook del marchio, oggi si punta sulla cosmesi. I like, meno di 2000, certificano però che il successo della società resta ormai, anche in questo caso, un lontano ricordo. Perché? Forse perché nessuno dei marchi sopracitati ha saputo rinnovarsi davvero. Di fatto parliamo di icone di un periodo ormai trapassato e questo ha creato un cortocircuito per cui a certi nomi si associa necessariamente un’epoca, senza che vi sia la possibilità di evolvere realmente seguendo le indicazioni del mercato odierno. Un po’ come quando si guardano le pubblicità dell’epoca e si ricorda quanto era buono il latte condensato Nestlé. Eppure nessuno -o quasi- si chiede se è ancora in commercio. Perché si tratta di un prodotto che appartiene al passato, che non è stato al passo e che quindi deve rimanere lì dov’è, ricordato con nostalgia ma non più attuale. (Photocredit Lapresse / Grazia.it / Olmescarretti/ Google / Facebook)