Monaco, Allianz Arena. I tifosi bavaresi, 70.000, con eleganza e classe accolgono la sconfitta applaudendo i beniamini che dovevano insegnare calcio all’Europa. Con la stessa forza con cui lo avevano fatto nell’assedio finale. Uno spettacolo meraviglioso, costruttivo: ma ciò non toglie che sono usciti, per la terza finale, sempre in semifinale di Champions League, sempre contro una spagnola, sempre dominando. Ma perdendo, appunto.
Tutto divide Guardiola e Simeone. Anche i capelli. Uno non li ha, ma la pelata è persino quella portata con stile, l’altro li ha ma evidentemente sono curati da un parrucchiere che prima faceva il carpentiere o il maestro d’ascia. Uno è un maestro di classe nel vestire, l’altro ama camicia e cravatta nera da boss della mala. Uno quando esulta te lo immagini dire “acciderbolina, ci voleva”, dell’altro ti vergogni persino a pensare cosa stia esclamando mentre sta prendendo un caffé.
Ma il calcio è il Cholo. Non è la geometria noiosa, ripetitiva e non di rado irridente di Pep, uno che la gavetta l’ha fatta nel Barcellona B, prende solo stipendi a 7 zeri e non ha mai provato a fare il suo tiqui taca, che so, col Carpi. E’ sangue e sudore, è provare ad allenare il Catania portandolo al record di punti in A, sono 4 anni all’Atletico Madrid in cui sovverti le gerarchie del denaro e del Potere, è rendere Godin il più forte centrale delle ultime stagioni, è farsi vendere campioni e costruirne altri, non annichilire gli Eto’o e gli Ibrahimovic perché non sono disposti a piegare la testa alla tua teologia calcistica.
E’ anche andare a Monaco ed entrare in area un paio di volte, ma pressare a tutto campo quei lord del pallone che dominano, senza vincere. E’ recuperare Torres e ridargli la cazzimma o, come si dice da quelle parti, la garra. E portare quello che a Napoli chiamavano il guallarito Sosa e fargli giocare una finale di Champions, è convincerci che Diego, bidone alla Juve, sia giocatore vero. E sì, è anche buttare un pallone in campo per interrompere un contropiede del Malaga, come farebbe uno qualsiasi di noi alla partita del sabato pomeriggio nella villa comunale.
Simeone non è Mourinho, lo Special One, che costringe i suoi presidenti a comprare campioni e vampirizza i suoi spogliatoi per poi lasciarli esangui ai suoi successori, è un leader che dà ai suoi tutto di sé e poi pretende di più dai suoi. E’ un comandante senza paura che giocherebbe al posto dei calciatori che schiera in campo e che, probabilmente in una partita, pur stando in panchina, corre più di Koke in campo. E pazienza se il tuo maestro è Gigi Simoni invece di Johann Cruyff. Anzi, meglio. Se Griezmann, il tuo Djorkaeff, riesci a farlo segnare quanto Ronaldo, se il tuo Simeone è Gabi e ha imparato a legnare come te, se il tuo Zamorano è Torres (lo sappiamo, il paragone è anche fisionomicamente ardito), se il tuo Pagliuca è lo sloveno Oblak, metà uomo e metà piovra, se i tuoi Colonnese e West sono Godin e Jimenez (che contro il Bayern fa un paio di cose alla Taribo) ovvio che non vinci solo la Coppa U.E.F.A. – ma che allenatore pazzesco era Simoni che vinceva con quei giocatori? – ma puoi ambire alla Champions League.
Il calcio non è una scienza esatta. E’ cuore, polmoni, passione, spogliatoio e un pizzico di follia. Per questo ci piace tanto.
Sì, è bello vedere Guardiola che dice “il mio lavoro non è vincere, ma far vedere il calcio ai miei giocatori e ai miei tifosi in modo diverso. Spero che a Carlo Ancelotti vada meglio”. Ma quanto è più vero, selvaggio, calcistico Simeone che ringhia al mondo la sua felicità? Contro tutto e tutti, alla Brian Clough. E fanculo ai radical chic.