«In questo istante vorrei essere morto. Non riesco più a lottare». Un biglietto simbolo del malessere, scritto prima della sua tragica fine, solitaria, nella cucina della casa della moglie in un sobborgo di Manchester. Era la mattina di trentasei anni fa, il 18 maggio 1980, quando Ian Curtis, storico frontman dei Joy Division, si suicidò. Il suo corpo senza vita fu ritrovato proprio dalla moglie dalla quale si era separato. Una storia, quella della separazione, raccontata con la leggendaria “Love will tear us apart“, il singolo uscito poco prima della fine che portò il gruppo nella top ten per la prima volta nel Regno Unito, nell’era del post-punk. Parole e musica che consegnarono Curtis e i Joy Division nella leggenda, eredità lasciata alla scena new wave di fine anni ’70.
La morte di Ian Curtis, malato di epilessia, fu però anche la fine della breve esperienza dei Joy Division. La sua vita da anti-eroe, inquieta, segnata dal “male di vivere“, trova espressione in capolavori come Atmosphere,Transmission o She’s lost control. Musica cupa, testi introspettivi che trasmettono la sua angoscia, dischi spettrali. Ma è un’angoscia, una solitudine raccontata quasi con distanza, come se fosse accettata da Curtis, vissuta come se fosse un sentimento naturale. Gli U2 nel loro album d’esordio dedicarono a Ian Curtis “A day without me”, una riflessione sul suicidio realizzato da Bono, The Edge e dal gruppo irlandese. Ma la memoria del genio tormentato di Curtis resta viva nell’eredità dei suoi capolavori.