Il colpo del secolo

Arsenio Lupin, Diabolik, Robin Hood,  sicuramente vi ricordano qualcosa. Miti fissati nella nostra memoria per il loro sapersi contraddistinguere in questa “professione”. Oggi invece vi raccontiamo di un “ladro vero”, di un professionista del furto

Ad Anversa ci vai per un motivo solo: diamanti. Lì è inutile andare a fare altro. Tutto ruota intorno a quelle maledette pietre. Non importa se dietro sono macchiate di sangue. Se portano i segni di dittature feroci, di bambini dodicenni mandati a fare la guerra. Se nascondono accordi sottobanco fatti fra i servizi segreti delle grandi potenze occidentali e il sanguinario signorotto di turno. Ad Anversa importa solo una cosa: se diamanti ce l’hai o no. Il resto sono chiacchiere da attivisti umanitari. Ad Anversa girano i soldi. Quelli veri. Quelli che le persone comuni possono solo immaginare. Qui le vendite ufficiali arrivano a quattro miliardi di dollari all’anno. Ma sono quelle ufficiali appunto. Il resto avviene sottobosco: impossibili da quantificare. Per cui se sei sveglio e senza peli sullo stomaco, Anversa è la città che fa per te. Qui ha sede anche l’unica polizia al mondo specializzata in diamanti. Tanto per capire.

Il Diamond Center è una fortezza. Nella strada dove si trova passano quasi tutti i diamanti grezzi del mondo. Ci sono telecamere ovunque, poliziotti in ogni angolo, addetti alla sicurezza anche sotto le sedie. Tutta la zona è una fortezza. Inespugnabile. Ma il Diamond Center lo è ancora di più. Il suo caveau è protetto da ogni sistema di sicurezza. Pensatene uno. C’è. Telecamere a raggi infrarossi, misuratori di temperatura, porte d’acciaio più spesse e resistenti di un thank, sensori sismici, radar e campi magnetici. Se esiste una tecnologia antiladro, state sicuri che là dentro la potete trovare. Che un ladro ce la possa fare a svaligiare un posto del genere non è nemmeno immaginabile. Se provi a dirlo la gente si mette a ridere: è come dire “sai ieri sono stato a letto con Demi Moore”. Ah bello, ma chi ti crede! È la stessa cosa. Il Diamond Center è come Fort Knox, inviolabile. O almeno lo era. Già perché la mattina di lunedì 17 febbraio 2003 la scena che si presenta agli addetti alla vigilanza una volta aperto il caveau non è delle più felici. Almeno cento cassette di sicurezza sono state aperte e svuotate. Il pavimento è pieno di banconote lasciate nella fretta di andar via. E il bello è che degli infiniti sistemi di allarme non è entrato uno in funzione. Nemmeno uno. I ladri sono entrati e hanno fatto piazza pulita di tutto. Qualcuno dice che hanno portato via un bottino di più di 100 milioni di dollari. Altri lo stimano intorno ai duecento. Chi può sapere quanto c’è dentro una cassetta di sicurezza? In entrambi i casi è il colpo del secolo. Nel vero senso della parola. Nessuno ha mai rubato una cifra del genere. Quel giorno è il lunedì nero di Anversa. La città è coperta dal suono delle sirene delle macchine della polizia. Non si parla d’altro. I ladri, intanto, sono lontani.

Mettere a segno quel furto non è stato facile. Ha richiesto due anni di lavoro. Chi lo ha ideato era conosciuto nella città. Era un italiano, ovviamente. Aveva creato una piccola ditta di import-export che commerciava diamanti grezzi. Niente di importante, quello che bastava per avere una cassetta di sicurezza nel Diamond Center. Il lavoro per arrivare a quel fatidico 17 febbraio è stato lungo. Ha richiesto i migliori esperti del settore. Come “Dita d’oro”, per esempio. Il miglior scassinatore del mondo. Torinese. C’è voluto davvero tanto per arrivare lì. Si è dovuto entrare con una telecamera nascosta e fotografare ogni singolo metro quadro del caveau. Ricostruirlo tutto. Imparare come muoversi senza far scattare i sensori. Riprodurre la chiave. Una chiave praticamente impossibile da duplicare per chiunque se non per “Dita d’oro”. Sapere come disattivare l’allarme. Capire da dove entrare. Ingannare i rilevatori di temperatura con scudi di polistirolo. Sono stati due anni intensi che hanno richiesto una squadra numerosa. Almeno otto persone. Ma la polizia di tutto quello che c’è dietro non sa nulla. Almeno non ora. Brancola nel buio più completo. Non che non abbia ipotesi: quello che manca sono indizi e prove.

I ladri intanto sono a Brescia. Prima si sono fermati a Bruxelles e poi si sono diretti in Italia. Uno di loro, il capo, però, decide di tornare ad Anversa. Non può non farsi più vedere lì. In effetti la sua società è in quella zona e la sua cassetta di sicurezza è proprio nel Diamond Center. Una sua assenza sarebbe sospetta. Così decide di tornare, anche perché deve riconsegnare l’auto a noleggio presa per la fuga. Mentre varca il confine l’uomo non immagina che la polizia italiana sta irrompendo in casa sua. Hanno commesso un errore. Un piccolissimo errore. Uno di loro avrebbe dovuto eliminare tutta l’immondizia fatta nei giorni antecedenti la rapina. Scontrini, bottiglie, carte, panini, bibite, tutto insomma. Ma nella fretta di andar via, tradito dall’ansia, ha deciso di liberarsi di tutto su un campo fuori città. Lui non lo sa, ma quel terreno appartiene a August Van Camp, un anziano in pensione che è davvero stufo di trovare ogni giorno sporcizia sulle sue proprietà. Così quando trova l’ennesima busta fa l’ennesima chiamata alla polizia. Le altre volte lo ignorano, ma stavolta no. Van Camp lo dice chiaramente: oltre a videocassette, scontrini, panini, ci sono delle buste che recano l’indicazione del Diamond Center. La polizia è lì in un baleno. Quello che hanno trovato era chiaro: i resti degli appostamenti. La scritta “Antipasto italiano” su una confezione, le analisi sul DNA e l’incrocio con gli scontrini fa il resto. A fare il colpo è stato Leonardo Notarbartolo. Ad Anversa non lo conoscono, ma in Italia sì. Un ladro professionista, vecchia scuola, uno da grandi rapine. Uno in grado di mettere assieme una squadra della vecchia guardia di Torino e portare a termine il colpo del secolo. Così appena Leonardo varca la soglia del Diamond Center lo arrestano. E piano piano arrivano anche ai suoi presunti complici: Ferdinando Finotto, Elio D’Onorio e Piero Tavano. Le prove contro Notarbartolo sono solo indiziare. Per gli altri non ci sono nemmeno quelle. I giudici lo condannano a due anni di carcere. È il 2005 e se ne è già fatti due. Non parla con nessuno. Non ammette niente, non dice dove sono i diamanti. Quando decide di farlo, circa un anno fa, racconta che il furto gli è stato commissionato. Dice che c’erano molti meno soldi dentro il caveau, circa venti milioni di dollari in diamanti. Secondo lui, chi gli ha commissionato il lavoro è stato furbo: ha portato via, insieme ai suoi amici, i diamanti dalle cassetta di sicurezza e si è fatto ridare i soldi dall’assicurazione. Lavoro pulito, doppio guadagno. Per alcuni, invece, dietro il colpo c’è la mafia: Notarbartolo ha un cugino che risiedeva ai vertici di Cosa Nostra. In un modo o nell’altro, i diamanti non si trovano.

Pochi mesi fa Leonardo esce. Ha scontato sei anni. Torna in Italia. Tre giorni fa la sorpresa: una pattuglia ferma una macchina per un controllo di routine. Siamo a Milano, verso Quarto Oggiaro. Quando gli agenti leggono i documenti dell’uomo al volante saltano. La perquisizione inizia. Dentro l’auto ci sono 1 chilo di diamanti grezzi e meno grezzi, nascosti fra i sedili in 21 buste sigillate. Gli agenti lo denunciano a piede libero per ricettazione. I diamanti adesso dovranno essere fatti analizzare per capirne la provenienza. Ma lui è tranquillo: sono solo scarti di lavorazione, dice. Orami del bottino non c’è più traccia.

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