Il delitto di Maria Cappa: il caso Graziosi

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Ci sono delitti che sono destinati al mistero. Circondati da un alone mistico, sembrano impossibili da decifrare. Anche a distanza di anni, rimangono lì, come sospesi, in attesa che qualcuno ne sveli la trama, dando finalmente un nome all’arcano.



Successe così per un caso di cui si sono perse le traccia nella memoria. Una stanza chiusa dall’interno. Un uomo morto, immerso in un lago di sangue, con accanto il lavoro di una vita: il proprio manoscritto. Dall’altra parte, in un’altra stanza, sua moglie. Nessuna traccia di effrazione, nessuna arma, nessuna impronta. Niente di niente. Solo quel taglio profondo che aveva tagliato la gola dell’uomo da parte a parte. Solo e soltanto questo.



LE IPOTESI – Furono milioni, ma alla fine rimase l’unica possibile: era stata la donna ad ucciderlo. Era entrata con il proprio mazzo di chiavi, aveva colpito a morte il marito e poi aveva chiuso la stanza. Come potesse aver inserito le chiavi dall’interno rimase un mistero. Ma, si sa, non tutte le ciambelle riescono con i buchi. La forca era già pronta, quando la verità arrivo. Aveva il volto scuro e cupo di chi ha sempre dormito poco, di chi non si ostina ad arrendersi alla soluzione più facile e fa di tutto per far quadrare le cose. Aveva anche un nome, ma nessuno ricorda quale fosse. Di certo c’è solo che arrivò, descrisse la scena e la donna fu liberata. Quello che disse suonò pressappoco così. «L’uomo si è ucciso da solo. Si è tagliato la gola con la risma di carta in cui l’abbiamo trovato immerso. Ha usato ogni singolo foglio come un taglierino, finché non è morto dissanguato». L’odio che moglie e marito nutrivano uno per l’altro era noto a tutti, ma nessuno avrebbe mai pensato che qualcuno potesse arrivare a tanto.

L’ARMA DEL DELITTO – Fu forse il ricordo di questo caso che, nell’ormai lontano 21 ottobre del ’45, spinse gli investigatori a guardare più in là, oltre alla siepe delle evidenze, una volta giunti in quell’albergo a Fiuggi. O forse, più semplicemente, c’erano troppi elementi confusi, troppe ambiguità presenti sulla scena del delitto. Fatto sta che, in un modo o nell’altro, nessuno credette a quello che Arnaldo Graziosi continuava a raccontare. Secondo il suo racconto, la moglie, Maria Cappa, «Sa, non ha voluto mai prendere il mio cognome», aveva preso e si era semplicemente sparata alla testa. Aveva fatto tutto così, in silenzio, in modo furtivo, che nemmeno la loro bambina di appena due anni, Andreina, si era svegliata. E dormiva nel loro stesso letto! La pistola sì, era sua, gliel’aveva prestata Corrada Guazio, un suo caro amico, ma la portava con sé solo da quando il padre aveva lasciato a lui e ai fratelli la gioielleria in via Cavour, a Roma. «E di questi tempi, voi mi capite vero marescia’, chi si fida ad andare in giro indifeso?!».



CAPIVA IL MARESCIALLO VACCARO, CAPIVA – Quello che però proprio non riusciva a comprendere, «e scusasse vostra eccellenza se devo essere, diciamo così, puntiglioso», era come mai l’uomo non avesse urlato una volta sentito lo sparo. Come mai non fosse accorso in soccorso della moglie. Come mai, prima di scendere a dare l’allarme, si fosse lavato e vestito di tutto punto, in maniera impeccabile. Come mai, una volta incontrato il proprietario dell’albergo, questo sì accorso trafelato e pallido per la sciagura soltanto immaginata, non avesse fatto altro che esclamare: «È successo un guaio, mia moglie si è sparata un colpo di rivoltella». Certo è vero, il biglietto parlava chiaro. «Quando leggerete queste righe il mio martirio sarà finito. Troppo a caro prezzo sto pagando la sola leggerezza della mia vita. Per mia figlia, per quelli che mi amano io debbo andarmene. Ora sono stanca mortalmente: basta con tutto. Desidero che tutti quelli che mi conoscono non sappiano di questo e abbiano sempre un buon ricordo di Maria». Però d’altronde la firma mancava. Un suicida non la lascia sempre? Può darsi, ma non è detto: alla fine a che serve?

MA ALTRE COSE LASCIAVANO SORGERE DUBBI – La distanza fra la mano di Maria e la pistola per esempio: «è troppo distante per un suicidio», dicevano gli esperti di balistica. «E poi manca l’alone accanto alla tempia. Quando qualcuno si spara da così vicino i residui dello sparo si depositano intorno al foro d’entrata del proiettile e la pelle risulta più bruciata». Niente, sul viso di Maria di quest’alone non c’era traccia. E poi quella telefonata. Perché correre a chiamare quest’Anna Maria Quadrini, sua studentessa, appena diciottenne, subito dopo il delitto? «Ma no marescia’, ma cosa crede’? Dovevamo andare a vedere un concerto insieme, ma dopo quello che è successo non mi sembrava il caso». Peccato che l’appuntato messogli alle calcagna non avesse fatto in tempo a sentire quello che diceva, altrimenti contraddirlo sarebbe stato un attimo. Bisognerebbe vedere quello che c’è fra Anna Maria e Graziosi. Niente giura lei. «Sì, lui mi piace, ma non mi ha mai toccata. Potete farmi anche controllare, ma sono pura come mi ha fatto mamma». Pura era pura. Ma quante cose scritte su quel diario. «Sono pazza di te, pazza d’amore», «Ti invio un po’ di quei baci che si sono accumulati durante la tua assenza sul banco del mio mercato d’amore: tu sei l’unico mio cliente», e via dicendo. Con una così non è che ti ci puoi fare solo una storia d’amore, magari voleva essere sposata. O magari era solo una studentessa del Conservatorio innamorata del proprio insegnante. Tutt’al più che Graziosi era una jazzista e un compositore di una certa fama: lavorava anche in Rai. In televisione. Figurarsi, chi non si sarebbe innamorato di uno che lavorava in televisione?!

NEL VUOTO – Di certa c’era solo la “leggerezza” di cui Maria parlava nella lettera: aveva la sifilide. E, naturalmente, ce l’avevano sia il marito che la bambina. «Mi confessò che poco prima che ci sposassimo era stata con un uomo a Vasto, in Abruzzo. Io l’ho perdonata, dopo dieci anni di fidanzamento una sbandata è comprensibile». La storia reggeva. Però, poteva sempre avergliela attaccata lui alla moglie la sifilide, o no. Tutti questi dubbi non toccarono la giuria. Il 29 ottobre del ’49 la condanna di colpevolezza scese implacabile. Di ricorrere in appello neanche a parlarne: la Corte sarebbe stata istituita solo nel 1951. Mentre per la Cassazione la sentenza era legittima, inoppugnabile. Le porte del carcere una volta spalancate rimasero chiuse per un anno. Poi l’evasione, la fuga, l’arresto, un nuovo processo, un’altra condanna e altri anni da scontare. Altri dodici anni. Fino a che, il 6 agosto del 1959, Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica, non firma la grazia. Andreina, infatti, non ha mai creduto alla colpevolezza del padre e ha convinto i suoi parenti a perdonarlo. Perdono senza il quale la concessione non sarebbe mai arrivata. Misteri, ombre. Chi aveva attaccato la sifilide all’altro? Che c’era davvero fra Anna Maria e Arnaldo? Maria si è davvero sparata? Nessuno lo sa. Arnaldo, la sua innocenza ha continuato a proclamarla fino alla fine. Fino al 6 marzo del 1997, quando, ormai ottantaquattrenne, ha preferito lanciarsi nel vuoto dalla sua casa di Grottaferrata.