“Il divo” è una cagata pazzesca
21/06/2008 di Alessandro D'Amato
Una recensione un po’ così sul film di Sorrentino dedicato ad Andreotti. Che diventa, senza volerlo, anche un discorso sulla complessità del potere e su come si combatte la mafia
Il titolo è messo lì per attirare il lettore, sia chiaro. Il film di Paolo Sorrentino “Il Divo” è bello. Deve esserlo, perché a Cannes non sbagliano mai. E tutte le recensioni – tranne quella ovviamente biliosa di Paolo Cirino Pomicino – lo dicono (e c’è anche chi – ossessionato dai suoi personali fantasmi – ci vede l’esatto contrario di quello che c’è ). Poi, se volete leggerne una davvero intelligente, andate qui. Eppure a me non è piaciuto. Perché, se ha un intento storico-biografico, il film lo fallisce perché sono troppe le lacune, troppe le rappresentazioni affrettate di fatti ben più ricchi di sfaccettature, troppi quelli mancanti. Se invece – come è più logico che sia, visto che il media scelto non sembra quello più adatto alla rappresentazione quanto possibile oggettiva – l’intento è quello rappresentativo, vedendo in Andreotti stesso una metafora – LA metafora – del Potere, allora ci siamo ancora meno. Perché allora, invece di perdersi in estetiche arzigogolate, il regista avrebbe dovuto sviluppare e spiegare allo spettatore il concetto contenuto nella scena dell’intervista ad Andreotti di Eugenio Scalfari.
LA REALTA’ E’…COMPLICAZIONE – Dove l’allora direttore di Repubblica enumera i vari fatti in cui “il gobbo è stato implicato“, e lui gli risponde spiegandogli che “la realtà è più complessa di quello che sembra”, e subito dopo ricordandogli che è stato proprio Andreotti, tramite la mediazione decisiva dell’oggi vituperato Giuseppe Ciarrapico, a garantire la più completa libertà editoriale al suo giornale. “E’ ma è più complicata di così”, dice Scalfari. E Andreotti ribatte: “Vedo che c’è arrivato da solo: la realtà è più complicata”. Il Ciarra, infatti, fu mediatore dell’affare che portò a scorporare i quotidiani oggi facenti parte del gruppo Espresso dalla Mondadori allora acquisita – con metodi che conosciamo – da Berlusconi. Ecco quindi che in quell’episodio l’orribile Belzebù si era comportato da cittadino preoccupato per la libertà di stampa, contravvenendo alla cupa rappresentazione che Scalfari ne aveva dato. Certo, a quel punto Scalfari stesso avrebbe potuto rispondere che Andreotti l’aveva fatto per non lasciare troppo potere nelle mani di Craxi, non certo per contribuire alla bellezza del mondo. E lì il sette volte presidente del Consiglio avrebbe potuto lanciare la stoccata decisiva, dicendo: “Certo. E infatti a volte perseguendo obiettivi egoistici si finisce per contribuire al bene collettivo. Questa cosa l’ha già detta qualcuno, non c’è bisogno che corri a scriverci un libro, Eugenio. Però riflettici. Questo ti darà l’idea di quanto è complessa quella realtà che tu vuoi tagliare con l’accetta”.
UN INTERESSE COMUNE – Un po’ quello che Paolo Mieli ha cercato di esprimere durante Anno Zero, quando ha ricordato che Giovanni Falcone si era appena trasferito a Roma alle dipendenze di Claudio Martelli, allora ministro proprio di Andreotti. Si era venduto, Falcone? Oppure aveva compreso “la complessità del potere”, e capito qualcosa di più al momento di accettare quell’incarico? Era venuto a combattere la battaglia più difficile, quella con gli equilibri politici. Che ad esempio rendevano opportuno, per un ministro, non sedere di fianco al suo capo di gabinetto durante una trasmissione televisiva (per non dare un segnale troppo “forte“, fa ridere ma è così) “contro la mafia“. E’ vero, il Potere è complesso. Andreotti ha fatto il salto di qualità nel 1967, quando Lima è entrato nella sua corrente. Lima, diretto collegamento ai Salvo e a Bontate, che poi persero la guerra di mafia nei primi anni Ottanta a favore dei Corleonesi. I quali volevano non un patto di non belligeranza o di collaborazione proficua a seconda dei casi, con la politica. Ma pretendevano di comandarla. Le leggi speciali contro la mafia varate da Andreotti arrivano dopo quella data, non prima. L’omicidio Lima addirittura molto tempo dopo. Il Gobbo storicamente, giudizialmente colluso con la mafia? “Referente romano” del potere siculo? Oppure rappresentante di quel patto non scritto, non detto, mai palesato che voleva due poteri legati insieme da un obiettivo comune (l’anticomunismo)?
LE BESTIE – Ha detto bene Santoro qualche settimana fa nella trasmissione dedicata al film. Il problema di quell’Italia era che un solo potere (quello democristiano, o della maggioranza che l’ha governata) era “condannato” a stare lì, senza possibilità di alternanza. Per motivi strategici. Sic stantibus rebus, era d’obbligo che a un certo punto cominciasse a stringere legami sempre più netti, quasi a fondersi con il nemico del suo nemico. Anzi, forse l’han fatto dall’inizio. Piano piano le due bestie sono diventate sempre più affamate: la mafia, di soldi pubblici su cui mettere le mani, e la politica di consenso da capitalizzare. Tutto questo ha portato all’orrido grumo di oggi, che vede ampiamente compromessa non una sola, ma – facendo i dovuti distinguo – ambedue le parti politiche odierne. Giuridicamente si possono enumerare i reati, storicamente si può fare il conto delle responsabilità e la morale a un sacco di gente con orecchie foderate di saporitissimo prosciutto. Forse, però, l’unica risposta intelligente è contenuta nel libro “I complici”, di Lirio Abbate e Peter Gomez: “La mafia raccoglie il pizzo dal 70% delle attività commericiali in Sicilia, il fatturato tocca il 9,5% del Pil (120 miliardi di euro, ndr), senza lo zavorramento mafioso le regioni del Mezzogiorno sarebbero sviluppate come quelle del Nord. Nella più moderna clinica dell’isola, di proprietà di un presunto prestanome di Provenzano, la Regione versava per ogni ciclo di terapia antitumorale 136mila euro; dopo i sequestri della magistratura, lo stesso ciclo costa 8mila euro. E allora diventa chiaro che Cosa Nostra non conviene, che gli amministratori pubblici collusi o distratti vanno emarginati non per moralismo, ma per semplice calcolo economico”. Già, la via economica all’antimafia. Perché nessuno ci ha mai provato?