Il modello curdo, un’esperienza esemplare ignorata colpevolmente

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Dalla lotta per l'autonomia di un popolo senza stato, emerge un'esperienza di governo possibile, moderna e praticabile anche in un contesto difficile come quello di una regione flagellata dalla guerra e dalla violenza settaria

Non è facile capire cosa fanno e chi sono i curdi, un popolo diviso tra quattro stati e a lungo perseguitato, che ora si ritrova agli onori della cronaca per essersi erto a unico bastione efficace al dilagare degli uomini dello Stato Islamico, quelli che vogliono fare il califfato a cavallo tra Siria e Iraq.



Makhmur, a Sud-Ovest di Arbil (Photo credit should read AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images)

IL SOGNO DEL KURDISTAN – I curdi sono un popolo, il popolo più numeroso del mondo senza uno stato. I curdi sono musulmani e no, in maggior parte sunniti, ma anche sciiti, e sono tenuti insieme da legami culturali e territoriali più che da religioni o ideologie, quei legami per i quali le loro tradizioni culturali e la loro lingua hanno resistito all’usura dei decenni che li hanno visti separati in quattro paesi e poi ad alimentare una robusta diaspora in Occidente, così come hanno resistito alle spesso brutali repressioni da parte dei regimi della regione e ancora prima a una serie di conquistatori più o meno di passaggio che hanno sempre impedito ai curdi di darsi uno stato e un governo indipendente.

LA REPUBBLICA DI MAHABAD – Uno dei momenti determinanti della storia moderna dei curdi cade tra il 1945 e il 1946, quando accanto alla repubblica dell’Azerbaijan iraniano, nasce la minuscola Repubblica di Mahabad (o Mahobad), dal nome della principale delle quattro cittadine che ne costituivano il territorio. L’esperienza è breve e favorita dall’occupazione sovietica, nel ’46 però Mosca onora gli impegni di Yalta, i suoi uomini tornano verso Nord e le due repubbliche svaniscono senza che ci sia bisogno d’impegnative campagne militari da parte del governo di Teheran, rimasto nella sfera d’influenza britannica e quindi occidentale.



Sostenitori di Massoud Barzani

DA MAHABAD AL KURDISTAN IRACHENO – All’epoca le forze armate della Repubblica erano in pratica rappresentate dagli uomini di Mustafa Barzani, provenienti dal Kurdistan iracheno. Parte degli uomini ritornerà in patria, dove gli ufficiali saranno condannati a morte e poi uccisi, mentre alcune centinaia di uomini seguiranno Barzani in un’avventurosa fuga dagli iraniani che li porterà fino nell’Azerbaijan sovietico. Solo nel 1958 Barzani farà ritorno in Iraq, ormai molto vicino all’URSS, e inizierà una serie di battaglie politiche per l’autonomia curda con il suo Partito Democratico del Kurdistan (Kurdistan Democratic Party – KDP ), come bandiera userà quella di Mahabad. Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno è suo figlio, è nato proprio a Mahabad ai tempi della repubblica ed è presidente del Kurdistan iracheno dal 2005, il secondo mandato (2009-2013) gli è stato prorogato di due anni dal parlamento. Gli sforzi dei curdi iracheni saranno premiati nel 1970 quando il regime baathista concederà al Kurdistan iracheno lo status di entità autonoma all’interno di un governo federale, status che sarà confermato anche nella costituzione post-Saddam della repubblica irachena nel 2005. L’autonomia non ha però impedito ai curdi di diventare bersaglio della ferocia di Saddam che, federalismo o no, non tollerava alcun potere antagonista, fosse pure su scala regionale.



DA MAHABAD ALLA SOCIALDEMOCRAZIA – Il primo partito del Kurdistan iracheno è però l’Unione Patriottica del Kurdistan (Patriotic Union of Kurdistan – PUK ) e anch’esso ha le sue radici nella breve avventura di Mahabad e da quanti sopravvissero al rientro in Iraq. Tra i fondatori del PUK c’è Jalal Talabani, che è stato presidente dell’Iraq dal 2005 al 2014, nel nuovo assetto federale la presidenza spetta ai curdi, il primo ministro agli sciiti e la presidenza del parlamento ai sunniti. Nel 1992 il partito, nato come ombrello di una variegata serie di sigle più o meno di sinistra, ha optato per una svolta «socialdemocratica» restando all’opposizione di una leadership curda descritta come feudale, tribale, borghese e di destra. Inizialmente partito delle élite, il PUK con il tempo è riuscito a raccogliere il gradimento di altre classi sociali e a guadagnare i consensi che lo hanno portato a dividere il potere con il KDP.

LA GUERRA CIVILE CURDA – Prima di giungere a questo accordo per la spartizione del potere i due partiti però si sono fatti la guerra, una guerra durata 3 anni e finita solo nel 1997 con la mediazione degli americani, che all’epoca «proteggevano» i curdi garantendo la no-fly zone imposta al regime di Saddam dopo la rovinosa sconfitta portata da Desert Storm. Da allora tra i due partiti è andata molto meglio, ma se da un lato Talabani è diventato anche uno dei padri nobili del nuovo Iraq (è conosciuto come «zio Jalal)» , il KDP ha approfittato della sua distrazione dagli affari propriamente curdi per consolidare il suo potere nel Nord della regione autonoma dalla quale provengono i suoi quadri. Tra i cable americani pubblicati da Wikileaks ce n’è uno del 2008 nel quale l’ambasciatore americano in Iraq lo descrive così: «Il KDP è composto da clan familiari, che operano come un’organizzazione mafiosa. Per esempio, suo zio Hoshyar Zebari (di Barzani) è ministro degli Esteri, suo nipote è il primo ministro curdo Nechirvan Barzani e suo figlio Masrur è a capo dell’intelligence curda.» A dispetto delle critiche e di una realtà che vede questo delicato equilibrio a rischio una volta spariti i padri nobili dei due partiti, il Kurdistan iracheno ha fatto notevolmente meglio del resto dell’Iraq e anche per l’Iraq rappresenta un fattore stabilizzante, più che la minaccia di una partizione del paese vagheggiata da molti commentatori negli ultimi anni.

Jalal Talabani

I CURDI IN IRAN – In Iran i curdi non godono d’autonomia e i governi iraniani, senza differenza tra quelli imperiali e quelli khomeinisti che li hanno seguiti, sono tradizionalmente attenti a reprimere ogni afflato separatista, che comunque tra i curdi iraniani non fa breccia. Anche gli iraniani hanno comunque un braccio armato negli uomini del Partito per la Libertà del Kurdistan (Party of Free Life of Kurdistan – PJAK) , una forza che può contare su qualche migliaio di uomini che vivono per lo più oltre i confini iraniani e che è attiva dal 2004. Il partito trae ispirazione dal PKK curdo, chiede maggiore autonomia per il Kurdistan iraniano e, particolarmente invisa agli ayatollah, la fine della teocrazia e l’instaurazione di una repubblica democratica. I curdi sciiti che vivono nel Kurdistan iraniano, una minoranza,  invece sembrano stare bene così come stanno.

DA ASSAD A ROJAVA – In Siria invece si è affermato in maniera indiscussa il Partito dell’Unione Democratica (Democratic Union Party – PYD), che in particolare dallo scoppio della guerra civile in Siria ha preso il controllo delle regioni siriane a maggioranza curda, facendo in modo che ne rimanessero fuori sia le forze di Assad che quelle dell’ISIS. Anche il PYD si può considerare una filiazione del PKK e seguendone la linea ha stabilito una regione autonoma in Siria, oggi conosciuta come Rojava (Rojavayê Kurdistanê, Kurdistan Occidentale), che si regge su un nuovo Contratto Sociale a fare da Costituzione per un’organizzazione del governo federale al quale partecipano tre cantoni, ciascuno dotato di un’organizzazione democratica e di autonomia di governo. Braccio armato del PYD è l’YPG (Unità di Protezione del Popolo o Yekîneyên Parastina Gel), anche se formalmente l’YPG tiene a presentarsi come esercito del Kurdistan siriano e a dirsi agli ordini del Comitato Supremo Kurdo del Kurdistan siriano.

REPRESSIONI E RIVOLTE – L’YPG, rinforzato da uomini del PKK turco e del PJAK iraniano, ma anche aiutato dal governo del Kurdistan iracheno, ha assunto in Siria una postura difensiva ponendosi di fatto come bastione a dividere la regione a maggioranza curda dal resto della Siria, devastata dalla guerra civile. In Siria, dove i curdi rappresentano circa il 10% della popolazione, il regime di Assad ha dimenticato le sue antiche promesse ai curdi e allo scoppio della guerra civile vietava ancora loro l’istruzione in lingua curda, la celebrazione delle festività curde, (come il Newroz, il loro capodanno) e in genere non ci andava leggero con la repressione, in particolare da quando nel 2004 alcune manifestazioni per l’autonomia sfociarono in violenze. In Iran come in Siria, nel 2004 i curdi si sollevarono indubbiamente galvanizzati dalla caduta di Saddam, ma sbagliarono clamorosamente i conti e si scontrarono con avversari decisamente al di sopra delle loro possibilità. Negli ultimi anni invece in Siria si è aperta una finestra d’opportunità che i curdi hanno saputo sfruttare e l’esperienza di Rojava è lì a dimostrare che l’applicazione del modello sposato dal PKK è praticabile, realizzabile e addirittura auspicabile come chiave della soluzione della questione curda, che tanti rompicapo ha procurato anche ai paesi che hanno finito per dividersi le spoglie del Kurdistan che non è mai stato.

La distribuzione dei curdi

IL FATTORE PKK – Il  Partito Curdo dei Lavoratori (Partîya Karkerén Kurdîstan -PKK) è nato in Turchia negli anni ’70 e da allora non ha mai avuto vita facile, ma le cose sono decisamente peggiorate quando nel 1984 ha scelto la lotta armata per conquistare l’indipendenza del Kurdistan turco. D’ispirazione marxista poi molto diluita, il PKK ha rappresentato il peggio per governi e giunte militari permeate da un nazionalismo che, fin dai tempi del fondatore Ataturk, è parte integrante della storia di emancipazione coloniale della repubblica turca, severo al punto da prevedere persino la punizione dell’offesa alla «turchità», qualunque cosa voglia dire una definizione tanto vaga da poter essere usata per gettare le persone in galera quasi a piacimento. Furono proprio le conquiste di Ataturk a cancellare il futuro stato curdo previsto dal Trattato di Sèvres, con il quale Italia, Francia e Gran Bretagna intendevano dividersi i resti dell’impero ottomano, firmando con l’ormai ex impero un accordo che mutava la geografia della regione tracciando di confini di nuove nazioni là dove un tempo c’era solo l’impero ottomano. Il Trattato non entrò mai in vigore a causa della vittoriosa insurrezione repubblicana e delle successive conquiste territoriali, che cancellarono il progetto di un Kurdistan indipendente e anche lo spazio previsto per l’Armenia. Dal 1925 al 1965 la regione curda è stata dichiarata area di operazioni militari e soggetta di fatto alla legge marziale, sostituita poi da una serie di legislazioni speciali che hanno compreso il bando dell’insegnamento della lingua A rendere ancora più indigesto il partito contribuì il viscerale anticomunismo dei militari e dell’élite turca, il PKK e con lui i curdi furono oggetto di rappresaglie sanguinose, omicidi e incarcerazioni di massa. Da Ankara i governi democratici come quelli golpisti hanno alimentato per anni una guerra sporca contro i curdi in generale e il PKK in particolare, riuscendo infine a convincere Europa e Stati Uniti includerlo nella lista delle organizzazioni terroriste. Allo stesso tempo ai curdi è stata negata la rappresentanza politica, una lunga serie di partiti e loro reincarnazioni sono stati esclusi dal gioco democratico con l’accusa di avere rapporti o di sostenere i progetti del PKK, così come tutti i candidati che si sono espressi senza la sufficiente turchità.

IL LEADER CHE COMANDA DALL’ERGASTOLO – Il suo leader è Abdullah Ocalan, che dal 1998 è prigioniero in un carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, dove sconta una condanna a morte poi tramutata in ergastolo e da dove continua a dirigere il PKK. A Imrali Ocalan ci è finito con il fondamentale contributo del governo D’Alema, che lo cacciò quando il leader curdo si trovò espulso dalla Siria, che gli aveva dato asilo, a seguito delle pressioni turche sul regime di Damasco. Ocalan aveva diritto all’asilo nel nostro paese, tanto che poi la nostra magistratura glielo concesse, ma dall’Italia fu cacciato prima del completamento dell’iter giudiziario, per finire in Kenya dove fu prelevato dai turchi e tradotto prigioniero a Imrali. Si deve a Ocalan sia la rinuncia al progetto secessionista in favore di un modello di autonomia per i curdi «ospiti» nei quattro paesi della regione, che il recente accordo con Erdogan, che ha messo fine alle attività armate del PKK in Turchia e che dovrebbe aprire finalmente la strada alla fine della repressione turca e a all’autonomia regionale tanto sospirata. Accordo che è giunto al termine di un’impennata delle attività militari degli uomini e delle donne dell’HPG, il braccio armato del PKK, che ha raggiunto il suo picco nel 2012. Una sollevazione figlia del fallimento dei negoziati cominciati nel 2009. Sollevazione che inquietò anche gli iraniani che, come nel 2004, cooperarono con i turchi e insieme bombardarono le basi del PKK in Iraq. Due occasioni nelle quali fu violata la sovranità territoriale dell’Iraq senza grosse proteste da parte di Baghad e neppure dalla comunità internazionale, in fondo bombardavano dei «terroristi». Fatta la pace con la Turchia il PKK non ha disarmato, ma ha «ritirato» le sue forze armate in Siria, a protezione dell’autonomia conquistata in Rojava, soluzione che ha fatto comodo sia alla Turchia che agli sponsor della rivolta contro Assad, nell’ultimo anno decisamente in ribasso e ora costretta a combattere anche con l’insorgere degli uomini del califfato. Il discorso con il quale Ocalan ha annunciato  la svolta merita attenzione, perché  offre progetti e parole di cui la regione sembra avere estremamente bisogno:

“La nostra lotta non è stata contro una razza, una religione o dei gruppi. La nostra lotta è stata contro ogni tipo di pressione e oppressione. Oggi ci stiamo risvegliano in un nuovo Medioriente, in una nuova Turchia e in un nuovo futuro. Oggi la sta cominciando una nuova era. Una porta si è aperta per passare dalla lotta armata alla lotta democratica. Il Medioriente e l’Asia Minore sperano in nuovo ordine. Un nuovo modello è una necessità come il pane e l’acqua. È il tempo dell’unità. Turchi e curdi hanno combattuto insieme a Çanakkale [nella Seconda Guerra Mondiale], e varato insieme il primo parlamento turco nel 1920. Nonostante tutti gli errori fatti negli ultimi 90 anni, stiamo cercando di costruire un modello che abbracci tutti gli oppressi, le classi e le culture. Le persone in Medioriente stanno cercando di rinascere dalle loro radici, perché sono stanche di tutte le guerre e i conflitti. La base della nuova lotta sono le idee, le ideologie e la politiche democratiche. Chiedo a tutti di costruire un modernismo democratico per sfuggire a queste pressioni, che sono chiaramente contro la storia e la fratellanza. Ora le pistole vanno silenziate e devono parlare i pensieri. È arrivato il momento che le armi escano dai confini turchi. Questa non è la fine, ma un nuovo inizio”

Il Nowruz del 2013 dopo l’accordo con la Turchia

I NUOVI EROI – Così quelli che erano «terroristi» si sono trasformati prima in argine alle truppe di Assad, quando il mondo faceva tifo per la rivolta, e ora anche in bastione contro l’avanzata dell’ISIS, in Siria come in Iraq.  Per di più gli uomini di HPG e YPG si sono mostrati molto più pugnaci ed efficaci degli uomini del Kurdistan iracheno anche nell’accorrere a fronteggiare l’avanzata degli uomini del califfato in Iraq. Quelli che tutti chiamano Peshmerga, termine generico che vale per tutti i combattenti curdi, sembrano essere solo quelli iracheni, che però si sono dimostrati militarmente insufficienti a contenere l’insorgenza talibana. A loro discolpa occorre dire che non combattono da molti anni,l’ultimo conflitto serio al quale hanno preso parte è stato quello intestino del 1994, e non bisogna trascurare il fatto che da allora gli americani si sono sempre guardati bene dall’armarli come invece hanno armato l’esercito iracheno.

TUTTI PAZZI PER I PESHMERGA –  Naturale quindi che alla prova dei fatti gli uomini di YPG e HPG si siano rivelati più reattivi e più efficaci, il pronto soccorso portato agli Yazidi bloccati sui monti è anche figlio di una preparazione militare che comprende lunghe marce in montagna per sfuggire agli eserciti avversari, ma è opinione generale che si tratti di truppe meglio addestrate, dirette e armate degli omologhi iracheni. Questo non solo perché si tratta di personale più rodato alla guerra, ma soprattutto perché il PKK ha sempre speso grandi energie e impegno per la costituzione e il mantenimento di quello che in origine doveva essere l’esercito popolare che avrebbe sconfitto l’occupante turco.  I curdi iracheni hanno avuto il merito fondamentale di mostrare all’Iraq e al mondo che i talibani che avevano messo in fuga l’esercito iracheno si potevano fermare, anche se in effetti poi con il passare dei giorni non sono stati in grado di fermarli con le loro sole forze, l’iniziale mobilitazione e l’operazione di contenimento ai tempi della prese di Mosul sono state un successo reale e non solo mediatico, ma senza armi e munizioni la volontà non basta e i curdi iracheni in tutta evidenza non sono in grado di schierare quei 200.000 armati che fino a qualche settimana si stimava costituissero l’esercito a loro disposizione.

CERTE IDEE NON PIACCIONO – Alla prova dei fatti non si sono visti e anche il milione di militari che dovrebbero essere inquadrati nell’esercito iracheno si è rivelato figlio di una valutazione troppo ottimistica, visto che il governo iracheno come quello curdo è corso a chiamare altri alle armi, per sconfiggere un nemico che in Iraq avrebbe meno di diecimila uomini. Tuttavia l’intervento degli uomini del PKK è passato largamente inosservato dai media, così com’è passato inosservato l’accordo Erdogan-Ocalan e ancora di più la costituzione dell’autonomia in Rojava. Che il «merito» dei successi sull’ISIS sia stato attribuito ai «Peshmerga» iracheni dipende sicuramente dalla scarsa simpatia che il PKK e le sue filiazioni riscuotono presso gli attori regionali e anche presso quelli che si sono fatti sponsor della ribellione ad Assad. Incensare il PKK vuol dire toccare nervi scoperti a Teheran come ad Ankara, fino giù nel Golfo, ma anche in quell’Occidente che voleva portare la democrazia in Medioriente e che invece nella regione non ha mai smesso di preferire, non solo nel caso dei curdi, le ragioni dei tiranni e delle élite alle legittime aspirazioni democratiche di un popolo che da decenni lotta per veder riconosciuto il suo diritto ad esistere.