Johan Cruyff è morto. Il calcio ha perso la sua rockstar

Johan Cruyff sapeva fare tutto. Anche se non ne era capace. Sapeva cantare, con l’aiuto di un drink. Come Pelé che scrisse le musiche di un film autobiografico.

Johan Cruyff ha saputo non vincere (attenzione, non perdere) un Mondiale, quello del 1974, entrando nella storia per quel 2-1 contro la Germania Ovest, ha saputo snobbare il Milan che triturerà il Barcellona 4-0 in finale di Coppa dei Campioni ad Atene dopo essersi fatto fotografare qualche giorno prima vicino al trofeo. Johan Cruyff ha regalato il suo numero, il 14, al giocatore più talentuoso e più sfortunato della storia dei cartoni animati, Julian Ross. Johan Cruyff era olandese e catalano, o catalano e olandese, al punto di avere un figlio di nome Jordi giocatore della Nazionale dei Paesi Bassi. Jordi ottenne quel 14 che brillò di luce propria nel cammino dell’Alavés piegato in finale di Coppa Uefa dal Liverpool grazie a quella porcata dei golden goal. Un’altra finale non persa, piuttosto non vinta.

Johan Cruyff è uno dei pochi a questo mondo ad aver avuto l’onore di avere un asteroide intitolato a suo nome, ad aver vinto tre volte il “Pallone d’Oro”, quello vero e non quello della Fifa, ad aver vinto la Coppa dei Campioni sia da giocatore sia da allenatore, ad aver trionfato in ogni competizione europea, Coppa Uefa esclusa, ad aver avuto un figlio meno bravo di lui ma comunque molto bravo, ad aver formato l’ossatura di una squadra che vincerà tutto negli anni a venire, ad aver avuto problemi con la Nazionale, ad aver chiuso la carriera negli Stati Uniti salvo poi riprenderla in mano con la maglia del Feyenoord.

Johan Cruyff ha fatto quello che hanno fatto molti altri. Dopo di lui. Perché l’olandese di Catalogna, o il catalano d’Olanda, è stato il calcio d’Europa e tutto ciò che è arrivato dopo di lui non può essere considerato “nuovo”. Se in Sudamerica si litiga su chi sia stato più grande tra Pelé e Maradona, in Europa non possono esserci dubbi. Lui, quel ragazzo magro, spigoloso con i capelli lunghi, quello sguardo duro, quelle mani nodose. Quel suo modo tutto particolare di giocare, quella rabbia mista a genio che metteva in campo, quella corsa nervosa su ogni pallone, le spallate che non mancavano mai, la confidenza con il pallone.

Johan Cruyff riusciva in tutto questo anche a essere delicato, preciso, fine, diretto, chirurgico. Una volta boxeur, una volta giocatore di biliardo. Il “Pelé bianco”, lo aveva ribattezzato Gianni Brera. E aveva ragione. Il talento più cristallino di una generazione, quella del dopoguerra, che dal nulla aveva conquistato il mondo grazie alla semplicità di chi amava giocare a pallone. Johan Cruyff era anche la promessa fatta a Agustí Montal Costa, presidente del Barcellona, che tornò a vincere con lui qualcosa dopo 14 anni (14…) nonostante l’Ajax dopo tre Coppe dei Campioni l’avesse promesso al Real Madrid. Johan Cruyff sono le sigarette fumate, gli infarti a ripetizione nel 1991, la salute sempre più cagionevole, il tumore.

Nel calcio odierno forse fanno più notizia le spacconate, le storie alla George Best o i racconti “nostalgici” di scarponi eletti a campioni. È difficile essere Johan Cruyff. Oggi forse solo Lionel Messi si avvicina al numero 14. Si avvicina, però. Talento puro, velocità, classe, gomiti, spinte, sfide, confronti, amore per la maglia, per il pubblico, per il gioco, per lo sport. Con occhi grandi e lucenti e che sembra dicano: “Si, lo so cosa pensi. E ti avviso, lo sono stato molto prima di quando tu possa immaginare. Perché me lo sono meritato. Perché solo uno è stato come me. Né migliore, né peggiore. Quelli che sono venuti dopo? Episodi non interessanti“. Come avrebbe detto una rockstar.

Bona nit, Johan.

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