La rivolta dei piccoli contro i poteri forti

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Arpe guida l’attacco a Fonsai contro Mediobanca e Unicredit. Riuscirà?




Tutto si può dire di Matteo Arpe, tranne che non sia un tenace combattente. Dopo la sconfitta – annunciata – nella guerra per la Banca Popolare di Milano, il nuovo campo di battaglia scelto dalla sua Sator (e dalla Palladio di Roberto Meneguzzo) è ancora più ambizioso.



LA LOTTA AI POTERI FORTI – Il guanto di sfida lanciato a Mediobanca e Unicredit riporterà forse l’ex amministratore delegato di Capitalia con la mente ai bei tempi della guerra con Cesare Geronzi, quando nessuno scommetteva contro di lui che invece è riuscito a fronteggiare la lobby continua del banchiere di Marino e andarsene soltanto dopo la fusione con Intesa e alle sue condizioni. Ma il progetto è forse più ambizioso del precedente: portare la sfida ai poteri forti – assai debolucci in Italia, come da tradizione – direttamente nel tempio più sacro, nel salotto più buono che ci sia.

IL COMUNICATO – E così alle 7 di ieri sera sera la Palladio Finanziaria ha comunicato ufficialmente di essere arrivata a raccogliere il 5% di Fondiaria Sai e, come ha scritto il Corriere della Sera, “di aver stretto un «patto di consultazione» con la Sator di Matteo Arpe, che a sua volta è venuta allo scoperto dichiarando di possedere il 3% del gruppo assicurativo”. Il patto, hanno fatto sapere dalla merchant vicentina, «non prevede alcuna intesa o obbligo in merito all’esercizio dei diritti di voto e si fonda sul comune interesse a sostenere il piano di ricapitalizzazione di Fondiaria Sai, che rappresenta uno dei più importanti operatori italiani nel mercato assicurativo e un patrimonio di organizzazione e di persone di primaria importanza». Una notizia che gli attuali azionisti, che stanno cercando di concludere l’operazione Unipol, avrebbero dovuto accogliere con esultanza.



ESULTANZA REPRESSA – Anche perché erano state Mediobanca e Unicredit a spiegare che il loro piano d’urgenza serviva a salvare la compagnia, tecnicamente fallita sotto il peso del miliardo di debiti. Un nuovo investitore pronto a sostenere Fonsai dovrebbe essere accolto a braccia aperte. Invece le due banche sanno benissimo che l’operazione Unipol rischia di essere ostacolata o addirittura cadere per le obiezioni delle autorità di controllo, e la presenza di un socio pronto a cacciare i soldi potrebbe far cadere l’aura di necessità e urgenza con cui piazza Cordusio e piazzetta Cuccia hanno ammantato l’operazione. E metterli definitivamente nei guai.

IL CASO ZINGALES – Sul Sole 24 Ore Luigi Zingales aveva spiegato con dovizia di particolari perché l’operazione Unipol-Fonsai puzzava:

Solo cinque anni fa FonSai capitalizzava cinque miliardi di euro, oggi in borsa ne vale solo 235 milioni. Un maligno potrebbe pensare che si tratti di un’iniziativa ad arte volta ad impedire che una rete come quella di Fondiaria, che deve essere fatta di ferro per resistere ancora in piedi a più di un quarto di secolo di cattivo management, finisca nelle mani di un imprenditore capace. Per Mediobanca, che ha il 13,5% di Generali, sarebbe un duro colpo. Meglio un manager meno in gamba. Meglio se un’altra compagnia di assicurazioni. Si consolida ulteriormente il mercato (a vantaggio di tutti i produttori incluse Generali) e si distrae un competitore che per i prossimi anni sarà impegnato a raccapezzarsi nella confusione lasciata dai Ligresti. Io temo che la realtà sia meno machiavellica, ma, se possibile, peggiore.

Frutto, secondo Zingales, di un metodo sbagliato:

In passato l’ho definito capitalismo di relazione, ma ora ritengo che sia offensivo nei confronti del capitalismo, quello vero. Preferisco chiamarlo comunismo societario. D’altronde una delle differenze sostanziali tra capitalismo e comunismo è chi prende le decisioni. In un sistema capitalistico sono i proprietari a scegliere e a subire le conseguenze economiche delle proprie scelte sbagliate. In un regime comunista le scelte economiche vengono fatte secondo una logica di potere e le conseguenze economiche di queste scelte non ricadono su chi le fa, ma sulla collettività. Si nomina la persona di cui ci si fida, la persona che non mette a rischio la posizione di potere di chi lo nomina. Questa è la logica che ha sempre prevalso in Mediobanca. Unipol viene scelta non perché è la migliore opzione per gli azionisti di FonSai o quelli di Mediobanca, ma perché è la meno pericolosa per il sistema di potere di cui Mediobanca è al centro. Unipol non viene scelta perché disposta a pagare di più gli azionisti, ma perché più disponibile a strapagare la famiglia Ligresti, dando a «ciascuno dei suoi componenti» (bimbi compresi?) un patto di non concorrenza della durata di cinque anni, in cui ognuno di loro riceve 7oomila euro all’anno per «non avvalersi dei loro consolidati rapporti con la rete agenziale e la clientela del gruppo FonSai», come recita la lettera di intenti di Unipol. Data la performance dimostrata dalla famiglia Ligresti io avrei offerto quella cifra a qualsiasi concorrente che li volesse assumere. Questo comunismo societario ha potuto trionfare in Italia perché non c’erano le regole sulla trasparenza, concorrenza, e rispetto dei diritti degli azionisti di minoranza di cui un mercato ha bisogno.

LA RIVOLTA DEI PICCOLI – Ecco quindi che la rivolta dei “piccoli” contro Mediobanca e Unicredit, nel momento particolare che vive il capitalismo italiano e con la Borsa così deprezzata, va a infilarsi come una fastidiosissima pulce sotto la pelle dell’elefante. E ancora una volta Arpe si trova ad aprire una breccia enorme nel muro del capitalismo di relazione italiano. Proprio in un momento in cui appare difficile alle “seconde linee” Monte dei Paschi di Siena e Caltagirone poter intervenire. Giovanni Pons su Repubblica spiegava oggi quali potrebbero essere i successivi scenari:

Se Unipol non dovesse intervenire, infatti, l’aumento di capitale Fonsai potrebbe andare avanti lo stesso con il supporto di Palladio, Sator (200 milioni a testa di disponibilità liquide) e magari molti altri investitori interessati a entrare a prezzi convenienti. In secondo luogo, l’aumento di Fonsai è stato fissato a 1,1 miliardi perché Unipol e Mediobanca pensano di fonderci dentro anche Premafin, che si porta appresso 340 milioni di debiti. Nella sostanza la fusione di Premafin in Fonsai si configura come un “leverage” che verrebbe pagato dagli azionisti di minoranza della compagnia chiamati a sottoscrivere un aumento più elevato del dovuto. Terza considerazione, ora per la Consob sarà ancora più difficile concedere a Unipol-Premafin l’esenzione dall’Opa a cascata su Fonsai. Se vi sarà, come previsto, un cambio di controllo in Premafin addirittura a premio, perché esentare il lancio di un’Opa su una controllata che ha la fila degli investitori fuori dalla porta pronti a immettere risorse fresche? Insomma il teorema del salvataggio di ultima istanza con gli assicurati in balia dei marosi e i creditori in fibrillazione fa acqua da tutte le parti


LA STRATEGIA DI ARPE
– Tutto bene, insomma? Non proprio, o meglio non solo. L’operazione di Arpe e Meneguzzo, tra i tanti pregi, soffre del difetto solito delle mosse di Arpe: ovvero che dal punto di vista della liquidità, se Atene piange Sparta non ha nulla da ridere. Il problema di Arpe è che, al di là delle alleanze che può portare nella partita – e che però sono storicamente mutevoli – non ha comunque la stessa possibilità di movimentare capitali dei suoi competitor. I quali però potrebbero uscire regolarmente dissanguati da una battaglia in campo aperto. Ma la strategia dell’ex Capitalia forse è cauta allo stesso modo: nel prossimo futuro l’elemento decisivo nella partita sono i regolatori. La Consob, Bankitalia e soprattutto l’Isvap possono far saltare qualunque piano. E mettere i bastoni tra le ruote a Mediobanca e Unicredit come anche allo stesso Arpe. Ancora una volta sarà l’arbitro a decidere come finirà la partita. Purtroppo, storicamente gli arbitri italiani hanno sempre avuto il problema della sudditanza psicologica. Ma forse stavolta…