L’Africa sub-sahariana non ce la fa

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L'emorragia delle energie migliori e il permanere di dittature-fantoccio sostenute dagli ex referenti coloniali condannano la regione all'instabilità e alla miseria senza alternative

La fascia di paesi africani che corre a Sud del Sahara è quasi completamente sotto il controllo di feroci dittature, ma scendendo verso Sud s’incontrano diversi stati falliti o in via d’implosione, nei quali la tutela di stampo coloniale sembra più l’origine dei mali che un sistema per contenerli e curarli.



DITTATORI E FANTOCCI – Le due crisi più attuali sono quelle della Repubblica Centrafricana e del Sud Sudan, che hanno finito per fare i vasi di coccio in una situazione nella quale comunque i vasi di ferro non sono altro che feroci dittature. Ciad, Niger, Sudan, Etiopia ed Eritrea non sono paesi nei quali dissenso e democrazia abbiano cittadinanza e più a Sud restano paesi come il Congo, l’Uganda, il Ruanda e il Burundi, vere e proprie polveriere che conservano al loro interno paurose contraddizioni irrisolte e che sono affidate a leadership corrotte in grado di rimanere al potere solo grazie al sostegno esterno delle cancellerie occidentali che ancora oggi dettano i tempi e i governi.



NESSUNA ALTERNATIVA – Autocrazie che agiscono senza controllo con brutalità, utilizzando le rivalità etniche e religiose come leva e a volte come pretesto per giustificare il proprio fallimento, trascinandosi ormai da decenni da un dittatore all’altro senza che ai lor cittadini non sia offerta altra alternativa che la cieca adesione a regimi spesso caricaturali o la fuga all’estero.

STATI CHE FALLISCONO  – In una situazione del genere non deve stupire che un paese come la Repubblica Centrafricana, da sempre feudo di Parigi che ha gestito con profitto ogni genere di dittatore facendone dei proconsoli francesi. In questo caso però Parigi sembra aver vestito la fine della dittature di Bozizé in modo da rendersi ancora più indispensabile per il paese. Fuggito il dittatore è stato nominato presidente di transizione Michel Djotodia, che si presentava come capo delle milizie Seleka, che però non erano della stessa opinione. Una volta cacciato il dittatore infatti, le milizie provenienti dal Nord e dall’est del paese e rinforzate da ciadiani e altri hanno continuato a spadroneggiare monetizzando l’assenza di uno stato o del minimo contrasto. Poco tempo e sono spuntate le milizie anti-balaka, «cristiane» e dedite a infierire sui musulmani, che si mormora siano vicine al deposto dittatore. Una novità per un paese nel quale non si sono mai registrate tensioni inter-religiose e nel quale i francesi sono alla fine intervenute ripetendo lo schema già applicato con successo in Mali: i parà di Parigi ad aprire la strada e a disarmare le milizie e un contingente multinazionale africano a far la guardia e a consolidare la «sicurezza» ristabilita dai francesi.



A BANGUI SI CAMBIA – Ora Djotodia si è dimesso e ha abbandonato il paese chiedendo asilo al Benin, si dice che la sua presenza complicasse le cose e una riconciliazione che ancora non si vede all’orizzonte, ma ora bisognerebbe trovare qualcuno che possa rassicurare cristiani e musulmani e mettersi al lavoro a razzo per rimettere in piedi un paese con appena quattro milioni di abitanti che ormai ne ha almeno uno che si divide tra profughi in patria e fuggiti appena oltre i confini in tutte le direzioni. Il nuovo presidente «di transizione» dovrebbe allo stesso tempo essere forte politicamente e abbastanza stimato da andare bene più o meno a tutti e per di più dovrebbe essere poco ambizioso, perché l’impegno prelude al divieto di candidature future e la sfida prevede il prendersi carico di un paese fallito, nel quale la macchina dello stato ormai non esiste più e l’economia è piantata da mesi.

A JUBA SI SPARA – Non va meglio in Sud Sudan, lo stato più giovane d’Africa fortemente voluto da Londra e Washington, che ora però appaiono in imbarazzo e incapaci di tirare fuori dal cilindro una soluzione acconcia. Qui il governo è imploso sull’onda degli scarsi risultati ottenuti finora, avendo brillato solo per corruzione e repressione del dissenso. Alla fine il partito quasi unico di governo che ha rappresentato il movimento di liberazione nazionale del Sudan e ottenuto l’indipendenza si è spaccato e il presidente Salva Kiir sembra impegnato a reprimere il dissenso con l’esercito dopo aver millantato un golpe contro il governo legittimo. Mentre Kiir dà la caccia al suo ex vicepresidente, la comunità internazionale fatica a soccorrere la popolazione, che dipende ancora quasi integralmente dagli aiuti internazionali.

LA DELUSIONE – I Sud-sudanesi sono visibilmente affranti, molti tra la numerosa diaspora erano tornati in patria convinti che avrebbero potuto investire capitali e talenti in un paese che manca di tutto, ma se ne sono ritornati in fretta da dov’erano venuti mancando le condizioni minime per fare affari e persino per sopravvivere decentemente. A loro e ai Sud-sudanesi non è rimasto altro che provare a contrastare una narrazione che a semplificato le diatribe riducendole a un conflitto etnico cercando di spiegare che non è così. In pochi giorni si sono così visti emergere e moltiplicarsi prima l’hashtag #MyTribeIsSouthSudan, che ogni ipotesi di competizione etnica e poi #ThingsIloveaboutSouthSudan , con il quale hanno cercato di mostrare al mondo quante cose belle ci sono nel loro paese oltre agli ex-guerriglieri, ora impegnati in un sanguinoso regolamento di conti.

SOLO INDIFFERENZA E PROPAGANDA – Il tutto con risultati modesti e non solo perché solo nella capitale Juba è possibile avere accesso a internet, la crisi in Sud Sudan preoccupa le cancellerie, ma come quella in Repubblica Centrafricana non è crisi adatta al mainstream occidentale. Persino gli appelli dell’ONU e di numerose organizzazioni umanitarie sono stati ignorati dai media come dai politici, richiamarle alla mente di europei ed americani vorrebbe dire spiegare e discutere anche come si arriva a situazioni del genere e quello è argomento che è meglio sorvolare, anche a netto della scarsissima empatia bianca per i neri africani, che fin dall’arrivo dei primi colonizzatori muoiono nell’indifferenza delle opinioni pubbliche occidentale, per lo più istruita a pensare che i paesi sviluppati non possono che portare del bene agli africani che, ingrati, non sanno come approfittarne. Niente di nuovo, quando capita il compito di spiegare quel che succede in quei paesi è affidato a persone che non conoscono minimamente la realtà o che preferiscono andare sul tranquillo e non mettere in discussione le narrazioni che promanano da Washington, Parigi o Londra. Certo è che il modello funziona e che difficilmente potrà essere rotto da un sussulto o dal tanto invocato rinascimento africano, una delle visioni preferite che le dittature locali usano per arricchire la retorica con un orgoglio africano che appartiene legittimamente solo ad alcune delle loro vittime. Per ora si è vista solo la perpetuazione del modello di dominio coloniale in altre forme e non è stato un bel vedere.