Le difficoltà del reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro

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Negli ultimi anni l'impegno di aziende, associazioni e direzioni carcerarie ha permesso a decine di detenuti di crearsi una carriera culminata in un lavoro ottenuto nel corso della detenzione e che ha permesso loro di abbandonare la carriera deviante e di costruirsi un futuro. Non mancano però le difficoltà anche a causa di una legislazione complessa

Il lavoro rende liberi. Questa frase, alla quale viene generalmente associato uno dei pensieri più cupi dell’età moderna, ha ancora la possibilità di assumere una valenza positiva per coloro che nel corso della vita hanno conosciuto il carcere e che proprio grazie al lavoro hanno la possibilità di riemergere. Attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro i detenuti hanno l’occasione di poter dimostrare all’autorità ed all’azienda che apre le sue porte di poter compiere un percorso di riabilitazione che parte dalla persona per concludersi nell’esperienza lavorativa.



LO STUDIO DELL’ASSOCIAZIONE ANTIGONE – L’associazione Antigone definisce quello che è il processo che porta un detenuto ad essere impiegato in un progetto che si conclude con un lavoro extra carcerario. E si capisce che per quanto l’obiettivo sia lodevole, il percorso che porta alla sua realizzazione è quantomeno accidentato. Intanto appare importante l’esistenza di una carriera lavorativa precedente alla condanna ed al carcere. Inoltre si valuta l’individuo analizzando le fasi della sua esperienza in prigione approfondendo lo sguardo relativamente alle misure alternative concesse. Nelle interviste prodotte dagli esponenti dell’associazione è emerso che la maggior parte dei detenuti, la cui vita è stata caratterizzata da una carriera deviante spesso legata allo spaccio di stupefacenti, ritengono la formazione scolastica e lavorativa un punto fermo per distanziarsi dagli elementi negativi della detenzione.



IL LAVORO COME REINSERIMENTO SOCIALE – Gli intervistati hanno espresso il loro auspicio per una trasformazione del carcere in un ruolo di ri-socializzazione e reinserimento sociale, con la speranza che la formazione locale sia orientata alla preparazione di figure professionali richieste dal mercato del lavoro e che le opportunità lavorative siano indirizzate verso settori richiesti. Il lavoro in carcere, secondo l’analisi condotta dall’associazione Antigone, rappresenta la base dei reinserimento sociale sia dal punto di vista economico sia sopratutto dal punto di vista della realizzazione personale e dall’uscita della devianza, così che i detenuti si sentano una volta tanto protagonisti di una storia a lieto fine che coincida con il riscatto sociale dell’individuo.



VOGLIA DI TORNARE ALLA VITA – Dalle interviste è emerso poi che l’aspettativa più alta e più comune in carcere è quella di avere un’attività da svolgere, indipendentemente dalla durata. Il lavoro, secondo molti detenuti, serve ad impiegare il tempo in modo più redditizio e formativo così da poter progettare un ritorno alla vita e la possibilità di riavvicinarsi alla propria famiglia. Gli imprenditori, dal canto loro, hanno ribadito la necessità oltre che l’importanza d’investire nel capitale umano dei detenuti, con l’interessamento di ex-carcerati che, arrivati a ricoprire incarichi professionali gratificanti, hanno espresso il desiderio di realizzare una gestione delle risorse umane in carcere.

I VINCOLI DELLE PENE ACCESSORIE – Ma la legge impone dei paletti che devono essere rispettati e che in alcuni casi possono rappresentare una grave limitazioni alle ambizioni ed al desiderio di rivalsa del detenuto. Parliamo delle cosiddette pene accessorie, ovvero quelle condanne in affiancamento alla pena detentiva che per un determinato periodo di tempo vincolano la libertà dell’individuo. Nello specifico, le pene che possono rappresentare un limite all’inserimento lavorativo dell’ex detenuto sono l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, la condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un’arte, l’incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione, la sospensione dell’esercizio di un’arte o di una professione.

I PROBLEMI VERI – Ed è importante sottolineare che spesso queste pene non vengono considerate per quelle che sono, ovvero un ostacolo all’inserimento lavorativo. Anche perché per avvocati ed imprenditori intervistati dal progetto Antigone, è possibile sorvolare sulle pene accessorie visto che il discrimine vero è rappresentato dalla scarsa istruzione, dalla mancanza della patente di guida o da un livello culturale basso che non si concilia in alcun modo con eventuali concorsi pubblici. Un altro problema sottaciuto ma che appare evidente specialmente per gli imprenditori è dato dalle lungaggini della giustizia che portano i condannati in attesa dell’appello ad aspettare anche anni, paralizzando così le speranze dei detenuti di poter intraprendere una carriera lavorativa extra carceraria.

IL NODO RECIDIVA – Un altro problema è dato dall’etichettamento da parte della società esterna. Può capitare che un ex-detenuto possa essere bollato da parte dei colleghi nonostante non abbia mostrato alcun comportamento deviante nella sede del lavoro. E questo può rappresentare un problema dal punto di vista umano, in quanto il detenuto sente di non poter mai evadere dalla propria situazione. Eppure, come conferma l’Huffington Post, attraverso un percorso virtuoso di formazione e preparazione al lavoro da parte delle autorità nei confronti dei detenuti, è possibile ridurre sensibilmente il numero degli episodi recidivi e di una prosecuzione della carriera deviante da parte del condannato. Ad esempio ci sono i progetti del carcere di Volterra che ha portato ad una recidiva complessiva del 20 per cento, ben più bassa del 70 per cento della media.

TRA CARCERI E CARCERI – Ma è un piccolo caso inserito in un contesto difficile. Prendiamo quello che accade nelle altre carceri come Poggioreale, Novara, Cuneo, Ferrara, Lecce, Favignana, Trani, Campobasso dove la cronaca parla di botte, di torture, di celle lisce e di detenuti ammassati in celle prive d’igiene e con carenza d’acqua. Ci sono poi i pidocchi di San Vittore, il Wc in mezzo alla stanza a Favignana, le celle senza lavandino di Campobasso, i suicidi di Sulmona. In questo contesto appare evidente che la possibilità di un lavoro già nel corso della detenzione con una prospettiva a lungo termine rappresenta un obiettivo da cogliere ad ogni costo. In questo senso lo scorso venerdì, nel corso del convegno organizzato da Eni dal titolo «La formazione ed il lavoro, due valori indispensabili per il reinserimento sociale dei detenuti» si è parlato dell’importanza di responsabilizzare coloro che vogliono cambiare vita.

IL PROGETTO LOGOS – Ed in questo senso è stata presentata l’attività del Progetto Logos, nato dall’azione della Compagnia di San Paolo e l’Ufficio Pio. L’obiettivo è quello di mettere in pratica quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ed il progetto agisce proprio in questo senso, rivolgendosi ad ex-detenuti fuori dal carcere da meno di cinque anni e che siano stati scarcerati per fine pena, indipendentemente dalla presenza di pene accessorie, dai penitenziari di Piemonte e Valle d’Aosta, che siano liberi da dipendenze e che non soffrano di patologie psichiatriche. E l’obiettivo è quello di dare un’opportunità a coloro che necessitano di un aiuto per perseguire un inserimento sociale e lavorativo attraverso il riconoscimento delle proprie responsabilità rispetto alla collettività.

IL LAVORO A BOLLATE – A questo proposito era presente tra gli ospiti al convegno anche il direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi, che nel corso del suo intervento ha sottolineato la bontà dei progetti portati avanti dall’istituto da lui diretto parlando di circa 150 detenuti lavoratori su una popolazione di 1.200 individui, proponendo anche uno schema aggiornato al luglio 2013 delle attività lavorative e formative all’interno della struttura carceraria. Ad esempio tra le opportunità viene presentata la possibilità di lavorare per la ditta S.S.T che si occupa della riparazione dei telefonini Samsung, come call center per la compagnia telefonica H3G, nel progetto Bitron, specializzato nell’assemblaggio di pezzi di elettrodomestici. La cooperativa sociale E.S.T.I.A. propone lavori di falegnameria e di rappresentazioni teatrali mentre la cooperativa Alice offre servizi di sartoria.

LA STORIA DI GIUSEPPE – Questo piccolo spaccato delle attività del carcere di Bollate dimostrano l’importanza del valore della formazione e del lavoro a supporto della crescita del detenuto, del recupero della credibilità personale e di come sia evoluto l’approccio delle istituzioni nei confronti di questo tema. Ed in questo senso appare esemplare la storia che ha visto coinvolta Eni che ha aperto le porte dello stabilimento di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, ad un ragazzo, Giuseppe, detenuto per 11 anni nel carcere di Cremona per spaccio di stupefacenti. L’azienda, grazie alla convenzione siglata con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, ha dato vita ad un approccio individualizzato nel suo centro di formazione di Cortemaggiore con la possibilità di assumere i personaggi più meritevoli nel corso del regime di detenzione.

BISOGNA GARANTIRE UN FUTURO – E questo è il percorso seguito da Giuseppe che nel corso degli anni ha dimostrato di essere pronto a cogliere un’occasione di riscatto lavorando alacremente in carcere prima ed in fabbrica poi. Il lavoro ha poi portato alla conoscenza di una ragazza diventata sua fidanzata e con la quale è riuscito ad organizzare la propria vita conclusasi con la scarcerazione dopo 11 anni. Una storia, questa, che dimostra l’importanza di poter fornire ad un detenuto la possibilità di redimersi del proprio peccato fornendogli un percorso da seguire che porti ad una riabilitazione. Perché, come sottolineato nel corso dell’incontro da Don Gino Rigoldi, spesso ci si dimentica che i detenuti ospiti per anni delle carceri italiane una volta usciti sono privi sia di un lavoro sia di una casa. E tale situazione di precarietà porta ad una recidiva del reato col fine ultimo di tornare in carcere, unico luogo percepito come sicuro.

IL RISPETTO PER LE VITTIME – Livia Pomodoro, Presidente del Tribunale di Milano, ha sottolineato le responsabilità della giustizia con i magistrati che spesso chiedono pene alternative o percorsi di formazione per quelli che sono stati condannati al carcere per reati definiti di sopravvivenza, ovvero quelli che vengono perpetrati per garantirsi la sussistenza, ma che questo non viene fatto per via della mole di leggi che impedisce un percorso di formazione e riabilitazione. La Pomodoro ha però voluto porre un distinguo tra quei reati definiti di sopravvivenza e gli altri, sottolineando la necessità di valutare caso per caso sopratutto in ossequio alle vittime di un’eventuale azione criminosa. Ma certo appare evidente che il carcere dovrebbe tornare alla sua formazione iniziale di rieducazione nei confronti del colpevole.

UN PERCORSO INIZIATO NEL 1975 – Del resto, come spiegano Susanna Pietralunga, Cristina Rossi, Chiara Sgarbi in un articolo pubblicato sulla rivista italiana di criminologia, nel 1975 s’iniziò a parlare di un allargamento delle prospettive per un reinserimento sociale dei detenuti con il coinvolgimento del mondo esterno nell’azione rieducativa. In questo senso anche l’Unione Europea chiede che si faccia ricorso alla cooperazione con organizzazioni ed associazioni che aiutino il recupero sociale dei detenuti. Il primo aprile è arrivato alla Commissione Giustizia del Senato il testo unico su amnistia ed indulto nel quale si parla di possibilità lavorative per detenuti. Si tratta del passo auspicato da Livia Pomodoro ma bisogna sperare che questo basti. Come specificato da Pietralunga, Rossi e Sgarbi nella letteratura attuale esistono oscillazioni consistenti sulla quantità degli studi svolti su tali argomenti e sulla natura di tali riflessioni, elaborate da istituzioni locali, politiche, penitenziarie e da rappresentanti delle associazioni.

UN CAMBIAMENTO NECESSARIO – Il tema è stato espresso con chiarezza da Don Rigoldi nel corso dell’evento organizzato da Eni Corporate University. Ci sono persone che sono in carcere per reati tutto sommato lievi, come il caso di un ragazzo di colore incappato nella ex-Cirielli a causa della reiterazione per tre volte del reato di vendita di cd falsi che gli è costato una pena a tre anni e sei mesi. Se non viene contemplato un percorso di rieducazione che porti l’accusato a comprendere la portata del suo gesto e che gli consenta di costruirsi un futuro, probabilmente una volta uscito tornerà a delinquere perché non saprà cosa fare. L’esempio di Giuseppe in questo senso è illuminante. Nonostante la condanna ad undici anni la sua voglia di reagire, di lottare, di cambiare e di assicurarsi un futuro l’ha portato ad essere protagonista di una storia conclusasi con un pensiero commovente:

L’ultimo giorno stavo lavorando, mi hanno chiamato perché era pronta la scarcerazione, sono andato, ho raccolto le mie cose in un sacco che ho buttato e sono uscito da lì. E la sera passeggiavo con la ragazza ed il cane. E vedendo il cielo ho provato un senso di libertà che non si può definire dopo tanto tempo…