Le multinazionali che distruggono il futuro

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In Brasile il colosso petrolifero olandese non vuole risarcire le persone danneggiate dalle sue attività

Nella città brasiliana di Paulinia Shell e Basf hanno prodotto per anni l’insetticida Aldrin. Gli abitanti ne hanno sofferto, e molti dei loro figli ne hanno pagato le conseguenze. Un caso di scuola dei danni ambientali provocati dalle multinazionali nei paesi in via di sviluppo, raccontato fa Süddeutsche Zeitung.



MALAPRODUZIONE – Ad un certo punto la signora Ciomara Rodrígues si è accorta che qualcosa non andava bene nel suo fisico. Dalla sua infanzia la donna brasiliana viveva a Paulinia, nelle vicinanze di una fabbrica chimica sita nelle periferie di San Paolo. I suoi due figli sono nati in questa città, ed il più grande rimetteva sempre e aveva problemi di diarrea ogni volta che lei lo allattava. Oggi il ragazzo soffre per problemi alla milza, mentre la madre ha danni al fegato, è in cura per la depressione, sicure conseguenze dell’insetticida Aldrin e di altre sostanze tossiche. La signora Ciomara non si era però mai posto il problema, prima che scoppiasse lo scandalo dello stabilimento della Shell. L’azienda olandese si era proposta in modo molto serio, e dal 1977 fino al 1992 aveva prodotto a Paulinia sostanze per proteggere le piante. L’attività era stata poi ceduta a Cyanamid, azienda statunitense, e poi alla tedesca Basf. “Chi poteva immaginare cosa facevano contro di noi”, si chiede ora disperata Ciomara Rodrígues. SZ cita il caso di un’altra donna brasiliana, Bendita Mary Andrade, alla quale la sostanza tossica ha provocato molti più danni. L’Andrade ha lavorato nove anni alla Shell, e suo figlio è nato con malformazioni al cervello, provocati dall’insetticida prodotto.

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RISARCIMENTO DANNI – Entrambe queste donno appartengono al gruppo di querelanti che anni fa ha intentato una causa alla Shell. L’impianto di Paulinia è chiuso dal 2002, dopo aver provocato molti problemi alla salute degli abitanti della zona. Almeno sessantuno persone sono morte per tumori o altre malattie provocate dall’inquinamento nell’acqua, nell’aria e nel terreno della zona vicina alla fabbrica. Più di cento persone tra dipendenti e abitanti hanno chiesto risarcimenti danni, ma ora come ieri vige un discreto caos giurisprudenziale. Le corti brasiliane hanno condannato sia Shell che Basf, ma finora i soldi sono stati dati solo alla giustizia del paese, visto che l’azienda tedesca si rifiuta di pagare risarcimenti per danni provocati a suo giudizio dal colosso petrolifero olandese. Il conto da saldare è piuttosto salato, visto che si parla di circa 440 milioni di euro, e solo quando saranno chiarite le responsabilità di Shell e Basf si potrà procedere ai risarcimenti individuali sanciti dalle corti brasiliane. Un altro caso tipico della forza delle multinazionali, che rischiano a dilazionare i costi dei danni provocati dal loro operato nei paesi più poveri. In questi anni il Brasile è cresciuto molto, ma nei decenni scorsi era sede di investimenti ad alto rischio. Il caso Shell Basf assomiglia molto per SZ ad un altro episodio che coinvolge un altro colosso del petrolio.



SIMILITUDINE – In molti aspetti la vicenda che coinvolge Shell ricorda il caso di Chevron-Texaco in Ecuador. A Lago Agrio, nel territorio amazzonico, il gigante petrolifero ha trivellato oro nero per anni, contaminando l’area. Quando la Chevron ha abbandonato l’impianto di estrazione, ha lasciato dietro di se un disastro ecologico. Nel 1993 partì la denuncia collettiva, fatta da 30 mila persone, contro il gruppo americano, che nel febbraio del 2011 è arrivata a conclusione con una condanna ad un maxi risarcimento di 18 miliardi di dollari. Un trionfo della giustizia per gli attivisti ambientali del paese sudamericano, che però sembra ancora molto lontano dalla conclusione. La Chevron sta spendendo decine di milioni di dollari in lobbisti per convincere i parlamentari americani a difenderla, mentre neppure il Brasile fa nulla per paura di perdere i contratti di fornitura stretti col gruppo statunitense. La Chevron ha avuto l’anno scorso un profitto di 27 miliardi di dollari, ma non vuole assolutamente pagare per la causa in Ecuador.

SPERANZE DI FUTURO – La vicenda di Paulinia evidenzia il lato oscuro che spesso vede protagonisti i grandi attori del capitalismo mondiale. L’ex dipendente del gruppo Shell Benedita Mary Andrade spera ancora di ricevere i soldi a lei assegnati dal tribunale, anche perché deve occuparsi di un figlio disabile. Un handicap figlio dei suoi anni di lavoro nell’impianto che produceva sostanze tossiche. ” Il denaro non lo renderà sano, ma almeno potrei garantirgli un futuro. E’ così doloroso sapere che il mio lavoro è la causa dei suoi problemi”. Poco distante dalla sua casa, di fronte all’ex stabilimento chiuso ormai da dieci anni, si possono leggere i cartelli appesi sui cancelli della fabbrica. “Divieto di accesso, rischi per la salute”.