Lebanon: La guerra vista dallo spioncino
10/11/2009 di Michele Coscia
Ci prendiamo una pausa dalle ultime uscite mainstream dei nostri cinema. Torniamo per un secondo a quel cinema d’autore che richiama in sala solo ultraquarantenni. Diamo uno sguardo a Lebanon, il Leone d’oro 2009.
Se parliamo di film vincitori di festival come Venezia o Cannes di solito lo spettatore moderno storce il naso. E’ abituato a pensare a film cecoslovacchi in bianco e nero con due minuti di dialogo su tredici ore di girato. O intellettualismi cinesoidi oscuri. In realtà anche io, che di questi due tipi di cinema mi nutro con avidità, trovo piuttosto spiazzanti le scelte di queste giurie. Quasi sempre me ne trovo in disaccordo. Inveisco contro Fahrenheit 9/11 che strappa ad Oldboy la Palma d’oro più scontata della storia del cinema. O l’increscioso filocinesismo di Marco Müller, capace di premiare vere e proprie oscenità da abbiocco rapido come Still Life ignorando anche piccole gemme del cinema italiano come Nuovomondo di Crialese. Eppure in questo 2009 mi sento di non andare troppo in disaccordo con il vincitore. Questa volta tutto è andato per il verso giusto, anche se lo si può imputare al fatto che la rosa di film presentati quest’anno non è che fosse proprio esaltante. Vediamo quindi che cosa ha da offrire questo fresco vincitore.
TANK – Libano, 1982. Un’accoppiata luogo-anno che non lascia spazio ad ambiguità alcuna. Un’accoppiata che è sinonimo di guerra. Il 6 Giugno Israele invade il Libano. Lo fa con la ormai proverbiale efficienza ed organizzazione del suo esercito, uno dei migliori al mondo. Un esercito che però non è composto solo da macchine apparentemente indistruttibili fuori, con la loro bella scorza di metallo. Le macchine dentro hanno anche un’anima. La protagonista del film. Quattro uomini, quattro macchinisti. Il pilota, il comandante, l’addetto alla carica del cannone e il puntatore. Quest’ultimo si può considerare il protagonista, in quanto è il novellino del carro e molti aspetti della vicenda sono espressamente visti attraverso i suoi occhi e le sue esperienze sensoriali. E’ anche l’unico dotato di una caratterizzazione leggermente più spessa degli altri, considerando il fatto che il film non riesce e, probabilmente, non vuole renderli speciali. I personaggi sono tutti piatti, senza peculiarità, esattamente come dice quel detto: Dio ha creato gli uomini diversi, Colt li ha resi uguali. Ovvero la sordida tristezza che quando si è bersagli e bersaglieri non c’è più nulla che ci distingua da chiunque altro. Quello che viene additato come un difetto non è che un pregio non interpretato.
GREENGRASS – L’idea che fa discutere di più del film è fondamentalmente la sua scelta più evidente. Ovvero quella di ambientare l’intera pellicola all’interno di un carro armato. All’infuori della scena precedente ai titoli di testa, un’inquadratura fissa, la telecamera non esce mai dalla grossa e rumorosa bara di metallo. I contatti che i quattro soldati hanno con l’esterno sono rappresentati visivamente solo dallo spioncino di cui sono dotati, ovvero il periscopio e lo strumento per puntare. Tutto è quindi passato attraverso il filtro di un mirino, senza alcun altro punto di vista, nemmeno per lo spettatore. L’unico altro stimolo proveniente dall’esterno sono i razzi del nemico. E’ un’operazione che richiama molto da vicino le visioni parziali ed estremamente realistiche che ama usare Greengrass, soprattutto nel suo capolavoro United 93. I carristi sono quasi come gli operatori delle torri di controllo dell’11 Settembre: persone che possono vedere la realtà soltanto attraverso il filtro di uno strumento. Che sia un mirino, un radar o una televisione poco importa. Una riflessione molto profonda su ciò che troppo spesso noi scambiamo per una realtà a tutto tondo. Non vogliamo ammettere che invece la stiamo guardando attraverso un piccolissimo spioncino, che solo raramente non viene deformato. Da cui viene un’altra critica a Lebanon: il suo trattare l’esterno solo come ostile. A parte che non è vero (vedere la scena del pickup). Comunque sia è anche questo un punto di forza: perché tutte le contraddizioni, tutte le sfaccettature di grigio che hanno la vita e la realtà esistono, ma non sono percepibili da dietro un mirino.
BASHIR – La mente può anche correre facilmente ad un altro film israeliano che ebbe un grande successo di critica e che trattava della guerra in Libano dell’82. Ovvero il Valzer con Bashir di Ari Folman. In realtà, a parte l’ambientazione e la scelta di forme espressive inusuali, le analogie sono ben poche. Se Valzer con Bashir era un film sulla rimozione e la manipolazione del ricordo che opera la violenza e la tragedia, qui c’è la manipolazione coercitiva del potere sulla realtà e la spersonalizzazione dell’individuo di fronte alla morte per lavoro. Eppure Lebanon non si lascia perdere l’occasione di citare, non si sa quanto volontariamente, il Valzer con Bashir, offrendo un’ostentata inquadratura su un mulo morente simile alla scena animata dell’ippodromo di Folman. Lebanon è un film superiore a Valzer con Bashir. Evita di cadere nelle trappole dell’accusa contro se stessi di tutti i mali del mondo, della guerra. Folman crea un film dove fondamentalmente i “superiori” sono consapevoli e colpevoli di tutto, mentre i libanesi e i siriani non vengono quasi nemmeno presi in considerazione. Lebanon non si dimentica che nella guerra esistono anche i nemici, e rende l’esperienza molto più controversa e appagante intellettualmente. Almeno fornisce un ritratto su cui parlare, cosa che Folman non fa, e forse non è nemmeno interessato a fare.