L’etanolo in crisi nelle mani dei petrolieri

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Leste ad approfittare del calo dei profitti nel settore, le corporation si comprano campi e infrastrutture per la produzione del carburante di derivazione vegetale

Prima che scoppiasse la grande crisi la corsa all’etanolo sembrava una corsa all’oro capace di mettere a rischio la disponibilità e i prezzi del cibo in tutto il mondo. Poi il mutare di una serie di condizioni ha raffreddato gli entusiasmi sul breve periodo e ora il settore langue ed è preda dei petrolieri.



LA BENZINA VEGETALE – L’idea di ricorrere all’etanolo come sostituto della benzina per autotrazione è venuta per prima ai brasiliani e il Brasile è stato il paese che per primo ha investito e trasformato la sua infrastruttura, primariamente per ridurre la sua dipendenza energetica dall’estero. Poi sono venute le preoccupazioni ambientali e l’idea ha cominciata ad avere un senso anche per i nordamericani, che così potevano dirsi preoccupati per l’ambiente e continuare a sovvenzionare gli agricoltori, lobby non meno potente di quella dei petrolieri, che ha in testa una questione ben chiara, quella per la quale il destino dei trasporti non può essere scollegato da forme di propulsione diverse a quelle che impiegano la combustione d’idrocarburi.



ALLUNGARE IL BRODO – A questo fine l’opportunità offerta dall’etanolo è straordinaria, perché permette di spacciare per combustibili “verdi” anche quelli appena allungati con i prodotti a base vegetale, dei quali si dice che non aggiungano la temuta CO2 in atmosfera perché altrettanta ne inglobano crescendo, anche se non è esattamente così, visto che gli ottimistici conti dell’EPA statunitense dicono che l’E85 (85% etanolo e 15% benzina) inquina il 61% di quanto non farebbe la sola benzina. Al conto poi sfuggono costi ambientali accessori, ma per niente trascurabili.



COSTI AMBIENTALI IMPONENTI – In Brasile ad esempio le piantagioni di canna da zucchero usata come materia prima sono state ricavate falciando la foresta e costruendo enormi latifondi, che ora che entrano in campo giganti come BP, che di recente ha fatto investimenti miliardari nel settore, rischiano di diventare ancora più grandi, con il potere di dettare i prezzi che si concentrerà sempre di più nelle mani di chi controlla le infrastrutture necessarie, dagli impianti per la lavorazione della materia prima agli oleodotti per portare il prodotto raffinato ai porti e quindi verso l’export e segnatamente verso il mercato americano.

LA CRISI – Anche negli Stati Uniti come in Brasile a colpire le sorti dell’etanolo è arrivato un mutamento del mercato che si è aggiunto a un netto calo degli stratosferici consumi americani di carburante. In Brasile, dove pure è stato trovato molto petrolio, il governo ha anche deciso di abbassare le tasse anche sulla benzina importata per stimolare l’economia. Così mentre l’inflazione ha contribuito ha spingere in alto i costi dell’etanolo, quelli dei carburanti fossili rimanevano stabili e i brasiliani sono tornati alla benzina, condannando l’etanolo a scendere da un 50% di quota di mercato al 30% in pochi anni. Una spettacolare inversione di tendenza dopo anni di crescita altrettanto rapida e tumultuosa, solo che questa ha falcidiato i più fragili tra quanti stavano cavalcando il boom e costretto alla chiusura numerosi impianti.

UNA CRISI CHE PASSA  – Lo stesso è accaduto più o meno negli Stati Uniti, dove i costi di produzione sono comunque più alti e dove l’etanolo brasiliano potrebbe trovare uno sbocco di mercato in un prossimo futuro, in attesa che passi l’abbondanza offerta dal fracking e dai giacimenti scoperti negli ultimi anni. Un momento che i giganti come BP sanno che arriverà, così come sanno che l’ostilità verso i combustibili più inquinanti non potrà che aumentare in futuro, ecco allora il senso d’investire una parte rilevante dei profitti in una produzione che sicuramente sarà assorbita dalla domanda energetica mondiale, in sicura crescita, anche qualora la produzione di gas e petrolio dovesse mantenersi più sostenuta del prevedibile.

SI SOMMA, NON SI SOSTITUISCE – Milioni di asiatici attendono ancora di salire in macchina e anche il Sudamerica ha ancora ampi margini d’espansione, poi ci sono le leggi contro l’inquinamento nei paesi più avanzati che assecondano il ricorso all’etanolo come mitigazione delle emissioni, anche se ormai è chiaro a tutti che il consumo dell’etanolo si aggiunge e non si sostituisce a quello dei combustibili fossili e che quindi è del tutto improprio considerare l’innovazione come un passo verso un minore inquinamento dell’atmosfera. È vero semmai il contrario, che il ricorso all’etanolo ha messo a disposizione miliardi di barili di combustibile appena meno inquinante in più.

GLI ANALISTI APPREZZANO – Considerazioni che le analisi correnti tendono a sorvolare, anche un recente articolo dedicato al fenomeno dal Washington Post, si preoccupa di magnificare la felicità del contadino che una volta raccoglieva la canna da zucchero a mano e ora ne raccoglie molta di più con la macchina che gli ha dato il nuovo padrone multinazionale, ma manca di ricordare il prezzo pagato in termini di perdita di un immenso patrimonio forestale e anche quello richiesto a milioni di contadini brasiliani convogliati nella coltivazione della canna da zucchero da padroni non meno esigenti. Così come manca di ricordare che quel contadino ora felice fa il lavoro che prima facevano molti contadini, che non avranno avuto molta altra scelta dal tentare d’inurbarsi alla meno peggio. Costi che a Wall Street non sono contabilizzati e che quindi non rilevano, l’investimento appare sensato e i petrolieri che investono i loro enormi profitti anche nella canna da zucchero brasiliana fanno un’operazione economicamente sensata, per loro, che non perdono mai.