«Cara Lorenzin mio padre è morto senza dignità»

Categorie: Cronaca, Italia, Salute

Il figlio di un malato terminale ha scritto al ministro della Salute. Per raccontare come sia assurdo morire così in un ospedale di Roma

Ha scritto al ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ha spiegato, parola per parola, come è morto suo padre, malato di cancro, nei corridoi del pronto soccorso del San Camillo. Le righe sono state raccontate da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera:



«Bice, apri la finestra: fammi vedere il sole», mormorò col suo ultimo fiato l’anarchico Pietro Gori, autore della struggente Addio Lugano bella. Marcello Cairoli non ha potuto esprimerlo, l’ultimo desiderio: è morto in mezzo alla dolente cagnara del pronto soccorso del San Camillo, con pochi decimetri di privacy ricavati da un paravento e un maglioncino appeso con lo scotch. Con moglie e figli intorno al letto, a proteggere coi corpi un pezzetto di decoro di chi stava spegnendosi. «Sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti mai arrivati», ha scritto il figlio a Beatrice Lorenzin. Forse è vero, forse non era possibile sconfiggere quello che Malaparte chiamava «lo stramaledetto». Ma non era solo una questione di medicine: «Nessuno ci ha aiutati a comprendere…»

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Come è morto Marcello?

Finché, all’inizio dell’autunno, l’uomo è finito in emergenza nell’ospedale romano. «Qui la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri «servono per garantire la privacy durante le visite»; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siam dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera».



«Sarebbe dovuto morire a casa -spiega Marcello sul Corriere – soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia».

(foto copertina ANSA/GIORGIO ONORATI)