Lidia Macchi, ecco come si è chiuso un caso vecchio di anni grazie alla tv

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Una lettera anonima arrivata ad un programma Tv consente di mettere le manette ad un 49 enne: alla base del delitto, motivazioni religiose

“Si era concessa e non doveva”: Lidia Macchi, di Varese, faceva parte del gruppo di Comunione e Liberazione della città lombarda. E’ morta quasi 30 anni fa, uccisa a coltellate: arrestato questa mattina, venerdì 15 gennaio,  Stefano Binda, ai tempi compagno dio scuola della Macchi e all’epoca dei fatti appena ventenne. E’ stato lui, stando alle accuse che gli vengono mosse, a uccidere la giovane: ed è tutto particolare il modo in cui questo “cold case” si è potuto risolvere: grazie ad una lettera anonima mostrata in un programma televisivo, una persona è riuscita a stabilire un collegamento fra la calligafia trasmessa e quella di una sua vecchia conoscenza. Di qui, l’arresto e l’accusa, pesantissima, di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa. 



LIDIA MACCHI, ECCO COME SI È CHIUSO UN CASO VECCHIO DI ANNI

Il Corriere della Sera ricostruisce.

Secondo quanto è trapelato dagli ambienti investigativi, una donna che aveva ricevuto in passato lettere da parte dell’uomo avrebbe riconosciuto lo stile della calligrafia guardando la trasmissione «Quarto Grado» su Rete4 e notando che le lettere scritte all’epoca in relazione all’omicidio di Lidia Macchi coincidevano nello stile e nella forma con quelle che le erano state recapitate.



 

La dinamica dell’omicidio per come sta venendo descritta dagli inquirenti ha davvero qualcosa di inquietante.



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 Binda, che all’epoca aveva un anno in meno di Lidia Macchi, avrebbe prima costretto la ragazza a un rapporto non consenziente e poi l’avrebbe uccisa con coltellate «a gruppi di tre». In particolare, l’uomo, laureato in Filosofia e descritto come «colto», senza occupazione fissa (prima di essere arrestato viveva con la madre pensionata a Brebbia, nel Varesotto), e con un passato di droga negli anni ‘90, sarebbe salito sull’auto della giovane il 5 gennaio 1987 nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio (Varese), dove Macchi si era recata per andare a trovare un’amica. L’auto con a bordo i due, sempre stando alla ricostruzione, si sarebbe mossa fino a raggiungere una zona boschiva non distante e là Binda, secondo l’accusa, avrebbe prima violentato la ragazza e poi l’avrebbe punita uccidendola, perché nella sua ottica aveva «violato» il suo «credo religioso» concedendosi. Non è chiaro, nell’ambito delle indagini basate su una serie di indizi, se l’uomo abbia costretto la ragazza a salire in auto con lui nel parcheggio e ad appartarsi vicino al bosco. L’avrebbe, poi, colpita, dopo la violenza, con numerose coltellate prima in macchina e poi mentre cercava di fuggire all’esterno. I colpi, in particolare, sarebbero stati inferti «alla schiena» e anche a una gamba mentre stava cercando di scappare. Lidia Macchi sarebbe morta per le ferite e per «asfissia» e dopo una lunga «agonia» in una «notte di gelo».

 

Parole che sono contenute nella lettera – agghiacciante – che venne recapitata  alla famiglia di Lidia Macchi poco dopo la morte della ragazza, e poi riconosciuta – come si spiegava – da una telespettatrice in televisione. Eccola, riportata da Chi l’Ha Visto.

 

Soddisfazione da parte della famiglia della vittima.

«Trenta anni che aspettiamo, finalmente si fa luce sull’omicidio di Lidia», ha commentato Paola Macchi, la madre della ragazza uccisa durante un’intervista a Radiouno Rai. «La procura di Milano ha lavorato in silenzio, ma ha lavorato sodo», ha aggiunto la donna.