Mafia Capitale, Roma è pronta al processo

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Domani apre nell'aula Vittorio Occorsio il maxi procedimento davanti alla Decima Corte Penale, ecco i protagonisti: imputati, pubblici ministeri, giudici e parti civili. La mafia a Roma esiste?

Il processo che cambierà la storia giudiziaria, politica e il volto della città di Roma è pronto a partire: il Processo Mafia Capitale apre i battenti domani con l’insediamento della Decima Corte Penale nell’Aula Vittorio Occorsio a Piazzale Clodio. Sono 46 gli imputati che finiranno alla sbarra, alcuni fisicamente presenti, altri in collegamento video dalle strutture detentive nelle quali sono custoditi: è il rito immediato celebrato davanti al giudice Rosanna Ianniello, che dovrà giudicare la colpevolezza per capi di imputazione che fanno rumore. Corruzione, usura, turbativa d’asta, e sopratutto, associazione per delinquere di stampo mafioso, e reati in generale aggravati dall’aver favorito un’associazione criminale che operava con metodi mafiosi.



MAFIA CAPITALE, ROMA E’ PRONTA AL PROCESSO

E’ questa l’accusa, la tesi, la proposizione accusatoria dei magistrati del Pubblico Ministero, coordinati dal Procuratore Capo della capitale Giuseppe Pignatone, affiancato dalla sua squadra di sostituti e aggiunti: Paolo Ielo, Giuseppe Cascini, Luca Tescaroli. Magistrati di esperienza, e sopratutto di esperienza nel fenomeno mafioso, a partire dall’ultimo nominato, Tescaroli: fu lui il magistrato del pubblico ministero che ottenne 24 ergastoli nel processo contro gli esecutori della strage di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Ha indagato anche sulla misteriosa morte di Roberto Calvi, trovato morto sotto il Blackfriars Bridge di Londra; Paolo Ielo viene da Tangentopoli, era il “giovane” del Pool di Mani Pulite coordinato da Antonio di Pietro, e dalle sue indagini nacquero i processi Sme, Imi-Sir e Lodo Mondadori; completa il quadro Giuseppe Cascini, che ha indagato sulle scalate di Unipol e Bnl. Un pool di esperienza, descritto da Valentina Renzopaoli su AffarItaliani, per sostenere l’accusa delle accuse: il sistema di gestione della Capitale, da vent’anni radicato, fra affidamenti diretti, appalti ombrosi, servizi sociali appaltati alle cooperative, macchina capitolina inefficiente ed elefantiaca, era divenuto prima preda, e poi strumento di un’organizzazione politico criminale dai connotati spiccatamente mafiosi, riconducibili al 416-bis del codice Penale.

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E’ il pilastro del processo, un processo che non ammette sconfitte: Giuseppe Pignatone, che ha arrestato Totò Cuffaro, che ha processato Vito Ciancimino, che ha catturato Bernardo Provenzano, di mafia se ne intende, e da Palermo a Roma non è certo l’ultimo arrivato. Che i reati ci siano, sembra che nessuno lo metta in discussione, nemmeno le difese: ne sia prova la sostanziale assenza di processi a rito ordinario. Molti imputati hanno chiesto il rito abbreviato (due i filoni di processo accelerato, fra cui anche quello per Giovanni Fiscon, ex Dg di Ama che il Gup ha rinviato al maxiprocesso di domani), altri il patteggiamento; per tutti gli altri, si va a processo col rito immediato, che è possibile solo quando sia presente “l’evidenza della prova” della colpevolezza degli imputati. Le difese punteranno e cercheranno di dimostrare che gli addebiti addossati ai loro clienti configurano una criminalità ordinaria, a volte anche di piccolo cabotaggio, storie da “rubagalline” – per dirla con una definizione udita da un difensore nei corridoi del Tribunale – ma certo non un’associazione a delinquere di stampo mafioso. Quella per cui Massimo Carminati, ex terrorista neofascista dei Nuclei Armati per la Rivoluzione e ritenuto al vertice del sistema del mondo di Mezzo, è in custodia cautelare presso il carcere di Parma in regime di 41 bis. Al suo braccio destro, quello violento, Riccardo Brugia, che si occupava di “recupero crediti” per l’associazione criminale: un lessico facile per dire che il camerata, che aveva un “legame inscindibile” con Massimo Carminati, per il “cecato” faceva il lavoro sporco: associazione mafiosa ed estorsione aggravata, i reati a lui contestati.



Massimo Carminati

E poi, Salvatore Buzzi: il braccio sinistro. Il presidente della Cooperativa 29 Giugno, definito dagli esponenti del centrosinistra romano “quasi la Caritas”. Una storia insospettabile, presentata come il miglior esempio delle speranze di recupero degli arrestati: un sistema di cooperazione sociale gigantesco che arruolava in lavori socialmente utili detenuti e soggetti in situazioni di marginalità sociale e che aveva riferimenti e contatti con tutti i gangli dell’amministrazione comunale romana. Una “mucca”, per usare la frase divenuta famosa, che “andava cibata” prima di “mungerla”: fare favori, offrire utilità, posti di lavoro, assunzioni, raccomandazioni; il tutto per legare a sé politici, dirigenti, impiegati del Comune di Roma; alcuni di essi, nei casi più gravi, sostanzialmente a libro paga, gli altri comunque a disposizione, contattabili, circuibili, in grado di rispondere positivamente ad offerte e sollecitazioni. Salvatore Buzzi è al centro del ponte politico fra Mafia Capitale e la città, e nell’ordinanza che ne dispone il carcere si legge che di suo particolare interesse erano i “settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, dell’accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico”. Sono questi i due pilastri dell’inchiesta: quello economico-politico, che faceva capo a Buzzi, che individuava e coltivava gli amministratori e i politici che potevano essere utili agli interessi dell’organizzazione; e quello economico-criminale, con Massimo Carminati e i suoi camerati che individuano e reclutano gli imprenditori, mantengono i rapporti con le altre organizzazioni criminali della capitale, col mondo politico, istituzionale, finanziario, con le forze dell’ordine e i servizi segreti. 



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Insieme a questi grandi nomi, gli altri imputati, radicati in ogni ganglo della città, e legati a doppio filo con la politica romana: tutta la politica. Con la destra, arrivata al Campidoglio con Gianni Alemanno (anche per lui continuano le indagini per associazione mafiosa), il sodalizio criminale utilizza secondo i Pm direttamente il metodo dell’intimidazione mafiosa; sono legati alla stagione alemanniana Riccardo Mancini, presidente dell’Ente Eur, Franco Panzironi, ex presidente dell’Ama, Luca Gramazio, già in Campidoglio e poi in Regione, e Giordano Tredicine. Con la sinistra, tornata a Palazzo Senatorio con Ignazio Marino, testa di ponte è Salvatore Buzzi, che avrebbe preferito una nuova vittoria di Gianni Alemanno per gli affari, ma che afferma di poter vantare collegamenti radicati con esponenti del centrosinistra: basti fare il nome di Mirko Coratti, potentissimo ex presidente dell’Assemblea Capitolina, Andrea Tassone, presidente del Municipio Roma X Ostia (“quello è nostro, solo nostro, capito?”, diceva al telefono Salvatore Buzzi), e Daniele Ozzimo, già assessore alla Casa della prima giunta Marino, raggiunto da provvedimenti di custodia cautelare e che ha chiesto il rito abbreviato, fiducioso che negli atti della procura vi sia la prova della propria estraneità ai fatti.

Salvatore Buzzi

Questi i nomi all’intreccio fra politica e amministrazione coinvolti nel processo: e il vero dramma di Mafia Capitale è il livello di infiltrazione che il sistema criminale avrebbe raggiunto all’interno dell’amministrazione capitolina, la “macchina” di Roma Capitale, per così dire. Dirigenti, funzionari, impiegati del Comune erano in contatto con Salvatore Buzzi, ricevevano telefonate dai suoi collaboratori, ricevevano ed offrivano utilità: Angelo Scozzafava, dirigente del dipartimento del Comune di Roma; Emanuela Salvatori (già condannata), a capo della struttura di gestione dei nomadi del Comune; Luca Odevaine, che ha ottenuto gli arresti domiciliari, che è in Campidoglio fin dalle giunte di Walter Veltroni, poi è alla polizia provinciale, poi torna in Campidoglio. Uomini inseriti negli ingranaggi, negli uffici dove si scrivono i bandi di gara – che, è l’accusa, cuciono su misura delle cooperative e delle imprese indicate dal sistema criminale, a volte vedendosele addirittura dettate al telefono. Sono gli uomini della macchina amministrativa quelli, fra gli altri, contenuti nella famosa “lista dei 101”: l’indice dei nomi della relazione prefettizia da 800 pagine, elaborata dai tecnici del governo che hanno passato al setaccio atti e provvedimenti, appalti e affidamenti in odor di mafia, indicando quali dirigenti e funzionari potevano essere avvicinati, o addirittura strumento, dell’organizzazione criminale. Alla lista e alla relazione sono stati rimossi i segreti amministrativi, e potranno essere depositati come prove in dibattimento dalla procura.

Nell’aula Vittorio Occorsio del tribunale di Roma, e poi nell’aula bunker di Rebibbia dove dalla seconda udienza sarà trasferito il dibattimento che proseguirà con un calendario serratissimo da quasi 4 udienze a settimana, si insedierà la Decima Corte del Tribunale di Roma, presieduta da Rosanna Ianniellola giudice che ha già inferto oltre 200 anni di condanna alla mafia di Ostia, quella delle famiglie Spada e Fasciani: era dai tempi della Banda della Magliana che non si sentiva il termine “mafia” a Roma prima di quella sentenza. Davanti a lei, avvocati e imputati: non tutti, a dire la verità, perché nei confronti di Carminati, Brugia e Buzzi, più altri 15 imputati in regime di custodia cautelare è stato disposto il dibattimento a distanza, stanti le gravi ragioni di sicurezza e la particolare complessità del processo. Domani, nell’udienza inaugurale, si costituiranno le parti civili: che sono il Comune di Roma – il commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca ha firmato oggi l’atto di costituzione, la Regione Lazio e gli enti rappresentativi: Libera, SOS Impresa, Cittadinanza Attiva e associazione antimafia Caponnetto. “Mafia Capitale”, spiegano a Giornalettismo i legali di parte civile, “si regge su due pilastri: da un lato il collegamento fra Massimo Carminati e i reduci della criminalità nera degli anni di piombo. Un legame che va oltre la militanza, un legame di guerra, di chi ha visto morire i propri camerati e in qualsiasi momento è pronto a tornare a coordinarsi, sostenersi, riattivare i vecchi legami. E’ questa rete che assume nella città un ruolo dirigente, grazie al secondo pilastro: l’esperienza del carcere. Tutti i principali indagati di Mafia Capitale hanno esperienze di carcerazione, sono pregiudicati o recidivi: questa seconda esperienza contribuisce a rinsaldare il loro legame identitario”.

Il processo sarà un punto di snodo per la storia politica della città. A testimoniare interverranno molti dei nomi che contano nella politica – sopratutto dal centrosinistra – nell’amministrazione, nella società. Salvatore Buzzi da solo ha depositato la richiesta di sentire 282 testimoni, e che testimoni.

Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, gli ex sindaci di Roma Ignazio Marino e Gianni Alemanno. E ancora l’eminenza grigia di Silvio Berlusconi, Gianni Letta, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il vice ministro all’Interno Filippo Bubbico e i parlamentari in carica Micaela Campana, Umberto Marroni(entrambi del Pd) e Loredana De Petris (Sel). Ma anche magistrati, come il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, prefetti, giornalisti e una sfilza di ex consiglieri ed ex assessori dell’amministrazione capitolina. Oltre ad una nutrita schiera di imputati di reati connessi. Sono in tutto 282 i nomi inseriti nella lista dei testimoni da ascoltare depositata dall’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi

Le difese cercheranno di dimostrare da subito, come dicevamo, che i reati forse sussistono, la mafia certamente no; in questo, la loro strada risulta indebolita dalle prime decisioni di Mafia Capitale: proprio ieri il GIP Anna Criscuolo ha condannato Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, a cinque anni e quattro mesi in abbreviato, confermando l’aggravante mafiosa.  Avendo confermato l’aggravante, il Gup presuppone l’esistenza di questa associazione mafiosa:Mafia Capitale per la prima volta viene messa per iscritto in una sentenza, il che va chiaramente a favore del lavoro compiuto dalla procura in questi anni. Ma sono tanti, ancora, gli inciampi sulla strada del processo: prima fra tutti, già domani, la reiterata richiesta di patteggiamento chiesta da Salvatore Buzzi.

Sul processo che avrà inizio il 5 novembre si allunga anche l’ombra di un rinvio sine die per una mossa a sorpresa dell’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi. Il legale del presidente della 29 giugno ripresenterà, prima dell’apertura del dibattimento, una nuova richiesta di patteggiamento a 3 anni e 9 mesi al collegio presieduto da Rosanna Ianiello. Nella proposta il difensore condizionerà l’applicazione della pena all’esclusione dell’associazione per delinquere di stampo mafioso. Al collegio a quel punto si prospetterà una triplice strada. Accogliere subito il patteggiamento: ipotesi, però, altamente improbabile perché supporrebbe una sconfessione immediata dell’impostazione dell’accusa che ruota intorno al 416bis. Accantonare la proposta e ridiscuterla nel merito al termine del dibattimento: via d’uscita per il collegio ritenuta forzata dal legale perché la formulazione dell’articolo 448 del codice di procedura penale impone al giudice di sciogliere subito la questione. Oppure, ed è l’insidia immaginata dal difensore di Buzzi, respingere il patteggiamento: strada che sarebbe obbligata per il tribunale secondo l’avvocato Alessandro Diddi. L’implicazione di questa terza opzione sarebbe devastante per il futuro del processo. Dopo aver respinto la richiesta, sarebbe, infatti, inevitabile per il collegio spogliarsi del procedimento perché, decidendo di ritenere infondata la proposta, vorrebbe dire che i giudici avrebbero già anticipato un giudizio sul merito del processo dopo la visione del fascicolo. A quel punto diventerebbe indispensabile trasferire il processo a un altro collegio con conseguente spostamento del dibattimento ad altro giudice.