Mafia, il nuovo «direttorio» dei boss: 31 arresti a Bagheria
05/06/2014 di Alberto Sofia

C’è un nuovo «direttorio» mafioso a Palermo, al posto della vecchia Commissione provinciale di Cosa nostra, la storica “cupola” dei boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Un vertice strategico, «la testa dell’acqua», come viene definita nelle intercettazioni dai padrini (tradotto, la “fonte” o l’ “origine” di un sistema, da un’espressione del dialetto siciliano), al quale deve obbedire anche il reggente operativo del mandamento. A ricreare l’organismo criminale hanno contributo vecchi e nuovi boss del mandamento di Bagheria – la roccaforte di “Zu Binnu” – , sgominato questa notte con 31 arresti, nell’ambito dell’operazione “Reset“, su ordine del pool coordinato dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci. Boss che reggevano le fila dell’organizzazione, accanto ai padrini palermitani e alle famiglie mafiose più influenti del capoluogo siciliano e della provincia.
MAFIA, DECAPITATO MANDAMENTO BAGHERIA – Tra i rappresentanti del mandamento di Bagheria, che include anche le famiglie di Villabate, Ficarazzi e Altavilla Milicia, molti sono già stati in carcere. Usciti dalla reclusione per fine pena, non si sono certo rassegnati alla “pensione”. Cosa Nostra è ancora una presenza forte, come dimostra il quadro emerso dalle indagini che hanno portato alla maxi operazione antimafia: le persone fermate sono accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio, sequestro di persona, estorsione, rapina, detenzione di armi e danneggiamento. Gli ex fedelissimi di Provenzano erano tornati a far sentire il loro cappio alle porte del capoluogo siciliano, dopo lo stop obbligato da una serie di arresti e condanne. In particolare, imponendo il pagamento del pizzo a imprenditori e commercianti. Quarantaquattro le estorsioni accertate durante le indagini: 19 consumate, 25 tentate. Tra queste, 18 quelle ai danni di imprese edili e 16 nei confronti di attività commerciali. Ma non solo: tra le vittime delle estorsioni realizzate dal clan di Bagheria c’era anche una casa di riposo. Ma questa volta c’è stato chi non si è voluto piegare al racket e ai ricatti, denunciando tutto alle autorità. «Venti vittime hanno confermato la pressione estorsiva alla quale erano sottoposte, alcune anche da decenni», ha spiegato il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, Pierangelo Iannotti.
VECCHI E NUOVI BOSS – L’accelerazione nell’indagine è stata permessa anche dal contributo di due collaboratori di giustizia, Sergio Flamia ed Enzo Gennaro. Sono stati i pentiti a rivelare retroscena fondamentali: se il primo ha ricostruito una cinquantina di omicidi, le “confessioni” del secondo hanno permesso di realizzare una mappa aggiornata dei legami tra Cosa Nostra, mondo dell’imprenditoria e politica locale. Fino all’operazione “Reset” con cui è stato sgominato il mandamento della storica “fortezza” di Provenzano. I suoi vecchi “sodali” erano tornati protagonisti, ancora impegnati nelle pratiche criminali e nelle estorsioni. Tra questi Nicolò Greco, considerato il vertice, la «testa dell’acqua», anche grazie alla parentela con il fratello Leonardo, boss storico della mafia di Bagheria. O Giuseppe Di Fiore, ritenuto un suo braccio operativo. Ma tra i nomi c’è anche Carlo Guttadauro, fratello di Filippo (il cognato di Matteo Messina Denaro) e Giuseppe (il medico boss di Brancaccio), capo decina di Aspra e in passato assolto. Ma non solo: ci sono anche Giuseppe Comparetto, uomo d’onore di Villabate, ed Emanuele Modica, di Casteldaccia, ritenuto affiliato alla mafia canadese (nel 2004 riuscì a evitare la morte in un agguato a Montreal). Tra le persone fermate anche Antonino Messicati Vitale, rientrato in Italia da pochi mesi dopo una breve latitanza a Bali, dove era stato individuato e arrestato (poi scarcerato). E anche Giovanni Pietro Flamia, Salvatore Lo Piparo, Giovanni Di Salvo, Michele Modica ed Emanuele Cecala. Questi ultimi considerati responsabili anche di alcuni omicidi. Secondo i pm, diversi membri del direttorio stavano pianificando altri omicidi, così come la fuga verso latitanze già programmate, in direzione Canada, Africa, Etiopia, Santo Domingo.
ESTORSIONI E OMICIDI – L’indagine ha permesso di ricostruire anche quanto avvenuto il 27 gennaio 2006, quando venne assassinato a Caccamo (Palermo) Antonino Canu, buttafuori di una discoteca diventato in quei mesi uno dei principali testimoni dell’accusa nel processo in Corte d’Assise contro i boss Salvatore e Pietro Rinella. Ovvero, i fratelli subentrati nel comando del clan di Caccamo al boss Nino Giuffré, diventato collaboratore di giustizia dopo l’arresto. Era stato lo stesso Giuffré, sette anni prima, a riferire agli inquirenti il progetto di Cosa nostra di assassinare Canu (con l’intenzione di far apparire l’omicidio come un incidente stradale) perché questo aveva commesso estorsioni in proprio, senza il permesso dei capimafia. Ora sono stati individuati i responsabili del suo omicidio: Canu fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca, dopo essere stato attirato nelle campagne di contrada Minutilla, dove fu gettato il suo corpo, poi ritrovato da un pastore. Identificati anche gli esecutori materiali del tentato omicidio di Nicasio Salerno: il 23 agosto 2005 a Caccamo fu bersagliato con 10 colpi di pistola, mentre tornava a casa con la moglie. Ma riuscì a salvarsi: incensurato, era stato tuttavia nominato dal pentito Giuffré come persona sgradita al boss di Trabia, che gli aveva chiesto di raccogliere informazioni su di lui.