Tre motivi per cui l’Italia non sarà mai la Danimarca, il paese perfetto per i giovani

21/01/2015 di IDEA

a cura di IDEA – 

di Vincenzo Giannico

Qualche tempo fa è apparso un articolo de “IlSole24ore” dal titolo Danimarca, ecco come si costruisce il Paese perfetto per i giovani in cui si elogiava il sistema universitario e di welfare scandinavo nel suo complesso, estremamente orientato ai giovani, tanto da schiacciare la disoccupazione degli under 30 sotto il 13% e da garantire agli stessi l’accesso alla formazione superiore praticamente a costo zero.

Non a caso, la Danimarca è “il paese più felice del mondo” e molti giovani italiani lo scelgono come meta per specializzarsi e per trovare un lavoro, in barba al nostro Paese che non investe più nei giovani e nel loro futuro.

Un sistema perfetto, orizzontale dal punto di vista dell’eguaglianza e organizzazione sociale e con un welfare avanzato, stimato ed apprezzato da molti. D’altronde chi non vorrebbe far crescere i propri figli in un paese così attento ai giovani ed al loro futuro? Tralasciando questa risposta, fin troppo facile, bisogna invece darne una a tutti quelli che si interrogano perché il nostro paese ad oggi non può (e per molti aspetti non ha voluto) garantire ai suoi giovani le stesse prospettive dei coetanei danesi.
Ecco quindi tre motivi per cui l’Italia non è e non vuole essere la Danimarca, paese perfetto per i giovani.

Welfare: le pensioni si prendono tutto – Nel 2014 il 30% della spesa pubblica italiana è finita nella voce “pensioni” del bilancio statale. Un bella fetta rappresentata da più di 260 miliardi di euro, (circa 4300€ pro capite) che ogni anno finisce giustamente – a detta di molti- nelle tasche degli italiani. Ma è davvero così giusto? Se per esempio si confronta la spesa previdenziale italiana con quella danese, per l’appunto, si scopre che in Danimarca le pensioni pesano “appena” per il 13,8% , più della metà di quelle italiane, e sono considerate da molti le migliori d’Europa. Un divario abissale che paralizza di fatto i conti pubblici italiani, sottraendo sussidi alle famiglie (uno spread del 6% rispetto alle danesi), ai disoccupati ed infine ai giovani, gli stessi che invece, in Danimarca, usufruiscono di un cumulo di benefit rappresentato dall’1% del Pil, 1,5 miliardi di euro. Euro che comunque rimangono molto ma molto distanti dai potenziali miliardi che potrebbero essere investiti verso i nostri giovani, se solo si abbassasse di qualche punto percentuale la spesa previdenziale nel nostro bilancio. Perché allora non avvicinarci ad un sistema pensionistico meno ingombrante, più sostenibile e anche più rispettoso nei confronti delle generazioni future? Semplice, perché anche se qualcosa è stato fatto con la riforma Fornero, la risposta perentoriamente è sempre la stessa: “Le pensioni non si toccano”. Vedi quanto sta accadendo con la riforma Fornero, anche dopo (che pericolo sventato!) la bocciatura del referendum abrogativo promosso dalla Lega Nord di Salvini e sostenuto dalla CGIL della Camusso.

La tanta odiata meritocrazia universitaria – In Danimarca l’università è davvero a costo zero: iscrizione gratis, abbondanti borse di studio e students loan (queste ultime sconosciute ai più e bistrattate dai sindacati studenteschi), al 100% degli studenti iscritti viene data la possibilità di accedere ad un alloggio gratis e le risorse didattiche universitarie sono infinite, dalle fotocopie gratuite alle biblioteche molto fornite, fino alla possibilità di usufruire di stampanti 3d e IPad per studiare direttamente sugli ebook. Però, c’è sempre un però. Affinché il sistema funzioni e per evitare una dispersione inutile di risorse, ci si affida ad un concetto molto semplice e chiaro, la meritocrazia. La meritocrazia danese è molto lineare ed orizzontale, diversa per esempio da quella anglosassone, ed è incentrata più sui doveri che sulle aspirazioni. Una meritocrazia che dice semplicemente che per accedere ad un master universitario bisogna essere bravi, non esiste infatti un vero e proprio numero chiuso ma ci sono le graduatorie: media, voto del bachelor, curriculum vitae, livello di inglese finiscono nel calderone della valutazione personale e forniscono un indicatore puro per essere ammessi. Se sei fuori dal numero programmato, non entri. Un po’ come i test d’ingresso italiani talmente amati che sono oggetto periodico di contestazione dei principali sindacati studenteschi. Non è finita, a differenza dei requisiti minimi per mantenere una borsa di studio in Italia, dai 15 cfu (crediti formativi universitari) in un anno fino a 40 in alcuni atenei, nelle università danesi se non si conseguono 30 cfu in un anno si è fuori. Fuori, non si perde la borsa di studio ed i vari benefit, si torna a casa. E vale lo stesso per chi non supera un esame entro 3 tentativi, senza sprecarne uno ovviamente. Si torna a casa. Che sia chiaro, il sistema universitario italiano ha profondamente bisogno di finanziamenti (7 milardi lo scorso anno, basterebbe meno del 3% dell’attuale spesa previdenziale per raddoppiarne l’importo), ma non si accetta nessuna tipologia di responsabilità e alla sola parola “merito” puntualmente si scatenano scioperi e occupazioni studentesche in tutta Italia.

Flessibilità nel mondo del lavoro? Chiedetelo ai danesi – La Danimarca è il paese più flessibile in Europa nel mercato del lavoro. Sì, perché se la disoccupazione giovanile lo scorso anno si attestava intorno allo 12,5% (un terzo dell’abbondante 43% che si registrava in Italia) evidentemente qualche merito alla flexsecurity bisogna pure attribuirlo. Infatti, mentre in Italia i sindacati e la sinistra radicale scendono in piazza per protestare contro l’abolizione dell’art. 18 ed il nuovo Jobs Act, in Danimarca cambiare più di 7-8 lavori durante la vita lavorativa è normale, tant’è che non esiste un vero e proprio contratto a tempo indeterminato ed i lavoratori sono tutti uguali. La storia risale a più di cento anni fa, esattamente nel 1899, quando veniva siglato dalle parti sociali il cosiddetto “accordo di settembre” in cui si spianò la strada alla futuro modello danese, caratterizzato da licenziamenti moto facili e tante, tante protezioni sociali. Cento anni di differenza pesano e lo sa bene il triumvirato di sinistra, Cesare Damiano, Tiziano Treu e Paolo Ferrero, rispettivamente responsabili del lavoro dei Ds, della Margherita e di Rifondazione comunista, che nel 2005 partì in spedizione verso Copenaghen per studiare il modello Danese. Tornarono ovviamente con le tasche vuote perché capirono che il problema, d’altronde, non era la flexibility, ma le coperture finanziare per assicurare la security, impossibile attuarla in Italia senza aggredire il macigno previdenziale e quindi mettersi contro l’intero elettorato.

@VinceGiannico

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