Pd, «processo» ai “dissidenti”. Lo spettro dell’espulsione
10/10/2014 di Alberto Sofia
La fiducia del Senato sul Jobs Act non sembra bastare all’ala più “renziana” del Partito democratico. In un partito già lacerato sulla riforma del lavoro e sull’articolo 18, c’è chi invoca il processo contro i “dissidenti” di Palazzo Madama, usciti dall’aula al momento del voto. Ovvero, Corradino Mineo (già rimosso da Renzi dalla commissione Affari Costituzionali per la sua ostilità sulla riforma del Senato e del Titolo V), Felice Casson e la civatiana Lucrezia Ricchiuti. «Si sono messi fuori dal Pd», protestano all’interno della segreteria. Lo spettro è quello dell’espulsione, invocata anche da Roberto Giachetti nei confronti di Mineo: «Il suo individualismo anarchico è inaccettabile». Un gesto estremo per frenare le resistenze ed “educare” tutto il resto dei parlamentari. O almeno una sanzione. Di certo, lo stesso segretario-premier Renzi non sembra orientato al “perdono” dei senatori che non hanno dato la fiducia all’esecutivo. Anche per non aprire precedenti.
PROCESSO PD, L’OMBRA DELL’ESPULSIONE PER MINEO, CASSON E RICCHIUTI – Dal Nazareno si capisce come il presidente del Consiglio sia ancora irritato per la scelta dei tre “disobbedienti”. Ha accettato la fiducia critica e il documento politico dei bersaniani. Per poi elogiare il comportamento di Walter Tocci, che ha deciso di votare la fiducia “turandosi il naso”, per poi annunciare le dimissioni. Il partito e il segretario hanno tentato di convincerlo a cambiare idea, ma il senatore ha confermato la scelta. Decisivo il contrasto fra la responsabilità verso il partito e la coerenza con le proprie idee. «Le dimissioni? Un atto nobile, non si gioca». Poi, sarà l’aula «a decidere se accettare o respingerle» (per prassi la prima volta vengono respinte, ndr).
Al contrario, Renzi vuole sanzionare il trio Casson-Mineo-Ricchiuti. Anche per mandare un avvertimento ai futuri malpancisti interni. Ma non solo. Il presidente del Consiglio è tentato di forzare la mano anche alla Camera, chiedendo la fiducia bis a Montecitorio. Niente modifiche e provvedimento da incassare già a metà novembre, è il cronoprogramma. Tradotto, è l’ora del “redde rationem”, altro che pax renziana.
L’ORA DEL “REDDE RATIONEM” – Il vicesegretario Lorenzo Guerini ha per ora “congelato” l’ipotesi di un’espulsione di Mineo, Casson e Ricchiuti: «Sono fuori? No, ne discuteranno il gruppo e la direzione serenamente e pacatamente». Eppure, ha sottolineato come «non partecipare a un voto di fiducia che è politicamente molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la propria comunità politica». La replica è arrivata da Giuseppe Civati, punto di riferimento per l’area più a sinistra del partito: «Non si può avere un partito all’americana, con eletti con le primarie, e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico». Non senza anticipare come, se verrà richiesta la fiducia alla Camera, non la voterà. Ed evocare lo spettro della scissione: «Io no, magari però qualcun altro la farà», ha continuato l’ex candidato alle primarie per la segreteria dem.
RISCHIO IMPLOSIONE – Renzi cercherà di evitare paragoni con le epurazioni del Movimento 5 Stelle, ma il rischio è concreto. Al momento, sono stati i “fedelissimi” a invocare sanzioni pesanti. E Giachetti ha rilanciato le sue richieste di espulsione in un’intervista sul Fatto: «Io al posto di Lorenzo Guerini sarei stato meno vago e molto più netto: chi non ha votato la fiducia si è già messo fuori del Pd. Non ci sono più le condizioni perché questi colleghi rimangano nel partito». Mineo ha già replicato: «Giachetti è un radicale, vedo che si è evoluto molto bene, gli faccio i miei complimenti, avrà un glorioso avvenire».
Al deputato ex radicale si è associato anche il senatore dem Salvatore Margiotta:
Se, da parlamentare, nego fiducia a governo guidato da segretario mio partito, ne traggo conseguenze da solo. Se politica ha ancora regole
— Salvatore Margiotta (@s_margiotta) 9 Ottobre 2014
Adesso la pratica finirà tra le mani del capogruppo a Palazzo Madama Luigi Zanda: «Al momento, mi aspetto una spiegazione articolata», ha spiegato a “Repubblica“. Il pericolo, se verrà scelta la strada delle “punizioni”, è quello di scatenare una protesta totale. Altro che processo, sarebbe l’implosione del Partito democratico.