Quando Shakespeare citò Seneca

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Storie di prestiti clamorosi fra colossi del pensiero



La storiella non troppo divertente del traffico internazionale di battute di cui si è parlato qualche giorno fa, al centro della quale troneggia una delle cime della comicità italica, mi ha fatto venir in mente un’altra storia, che con essa ha qualche similitudine ma che per fortuna dei lettori si svolge a livelli eccezionalmente più elevati, come si conviene d’altro canto ad una rubrica fine come la nostra, cioè la mia, caro direttore responsabile. E’ una storia di prestiti gratuiti fra colossi del pensiero e della letteratura di tutti i tempi. Si chiamano prestiti gratuiti, e non scopiazzature, perché tra gli spiriti magnanimi ci s’incontra rompendo le catene del tempo e dello spazio in tutta naturalezza quasi togliendoci l’un l’altro le parole di bocca. Da qualche parte il grande Seneca scrive più o meno: quel che mio è tuo, se è veramente tuo. Così come da qualche parte il grande Montaigne scrive più o meno: sento dire ogni giorno cose vere e profonde, ma bisogna scuotere per benino coloro che le dicono, per vedere se sono veramente loro o le tengono solo in bocca. Io scrivo invece in tutta tranquillità “da qualche parte” per fare un dispetto ai pedanti attaccati alla lettera e agli amanti delle troppe note che ammazzano le buone letture e gli studiosi troppo seri. Nel Nuovo Testamento più d’una volta possiamo leggere “da qualche parte sta scritto”: cose scritte, questi “da qualche parte”, da anime grandi e forti. E’ bello e saggio seguire le tracce dei grandi, tanto più quando è comodo.

Quando parlo di spiriti magnanimi non intendo però esattamente gli uomini famosi. Non fa parte di questo libero-scambismo intellettuale per esempio il passo spesso citato dei Pensieri di quel pessimo Pascal che continua ad avere malauguratamente buona fama anche tra i cristiani:“L’homme n’est ni ange ni bête, et le malheur veut que qui veut faire l’ange fait la bête.” Si tratta infatti di una scopiazzatura da Montaigne: “Ils veulent se mettre hors d’eux, et échapper à l’homme. C’est folie: au lieu de se transformer en anges ils se transforment en bêtes; au lieu de se hausser, ils s’abattent” (Montaigne, Essais, III, 13); Montaigne, il cui fascino Pascal subì, ma di cui finì per odiare la figura perché sentiva di non essere all’altezza dell’olimpica grandezza di quello che i cretini hanno etichettato come “scettico”, quando invece lo scetticismo di Montaigne è solo quella prudenza, quella temperanza dell’intelletto che si accompagna naturalmente alla sua anima stoico-cristiana.



Qualche lustro fa dunque mi capitò di leggere un passo delle Lettere a Lucilio di Seneca talmente peculiare ed espressivo da risvegliare immediatamente in me il ricordo di qualcosa che già conoscevo: si trattava di alcuni versi di Shakespeare, che ritrovai dopo breve ricerca e senza troppe difficoltà nel King Lear. Sul momento mi limitai ad adulare me stesso per esser riuscito a inserirmi telepaticamente in questa corresponsione d’amorosi sensi tra geni; solo in seguito mi resi conto, prendendo in mano edizioni annotate inglesi ed italiane del dramma shakespeareano, che a questa citazione senechiana nessuno faceva alcun riferimento. Echi stoici, attraverso Seneca e Montaigne, di cui fu di fondamentale importanza la traduzione di John (Giovanni) Florio dei Saggi in inglese nel 1603, non sono infrequenti in Shakespeare. Però il passo in questione delle Epistulae senechiane ci dà la certezza che Shakespeare ebbe sotto gli occhi, in versione originale o in qualche traduzione, magari non ancora pubblicata, quell’opera di Seneca.

La cosa ha sua spiegazione. Durante la vita di Shakespeare la quasi totalità del corpus filosofico senechiano rimase ancora in latino. Mentre le tragedie di Seneca, che sono oggi la parte di grandissima lunga più trascurata della sua opera, ebbero un’influenza enorme sul teatro elisabettiano. In un suo saggio del 1927, intitolato Seneca nelle traduzioni elisabettiane, Thomas Stearns Eliot, scrive: “Nessun autore ha esercitato più vasta e profonda influenza sul pensiero e la forma della tragedia elisabettiana di quanto abbia fatto Seneca. (…) La maggior parte delle traduzioni più note sono di autori di indiscutibile qualità, e queste traduzioni devono gran parte del loro prestigio alla fama e al merito dell’autore tradotto, mentre la maggior parte delle più note traduzioni devono gran parte del loro prestigio alla fama e al merito dell’autore tradotto, mentre la maggior parte delle più note traduzioni in prosa hanno uno stile così puro e sciolto da colpire anche il lettore più sprovveduto. (….) Le Tenne Tragedies furono tradotte e pubblicate separatamente nell’arco di circa otto anni, eccezion fatta per Thebais che fu tradotta da Newton nel 1581, per completare la sua edizione di tutte le opere di Seneca. L’ordine e la cronologia delle svariate traduzioni sono interessanti. Il primo e il migliore dei traduttori fu Jasper Heywood: il suo Troas fu stampato nel 1559, il suo Tyestes nel 1560, il suo Hercules Furens nel 1561. L’Œdipus di Alexander Neviyle (tradotto nel 1560) fu pubblicato nel 1563. Nel 1566 apparvero l’Octavia di Nuce, e l’Agamennon, la Medea e l’Hercules Œtaeus di Studley. Probabilmente l’Hippolytus di Studley fu pubblicato nel 1567. Passarono poi quattordici anni prima che Newton realizzasse la sua edizione completa, e si può supporre che Thebais sia stata tradotta a tal fine.” (T.S. Eliot, Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani).
Invece per quanto riguarda l’opera filosofica di Seneca sappiamo che nel 1546-1547 Robert Whittington tradusse tre presunte opere di Seneca: The Forme and Rule of Honest Lyvynge, 1546; The Myrrour or Glasse of Maners, 1547; and De remediis fortuitorum, 1547; le prime due però sono in realtà opere di Martino di Braga; la terza, nel titolo, non corrisponde al alcuna opera di Seneca. Nel 1578 Arthur Golding tradusse il De Beneficiis: The Woorke of Lucius Annaeus Seneca concerning Benefyting, that is to say, the dooing, receyving, and requyting of good turnes, translated out of Latin by A. Golding. J. Day, London, 1578.



Recentemente Clare Byrne ha parlato di “An early translation os Seneca”: “…a small volume published apparently in 1577, containing selections from his Epistolae, his De Tranquillitate Animi, De Brevitate Vitae, De Consolatione, and De providentia. It is, so far as I can discover, not only the earliest English translation of a volume of selections from Seneca, but representes also the earliest English version of these five moral treatises; and after De Remediis Fortuitorum trasnlated in 1547, ranks as the second “Englishing” of Seneca as a moral philosopher. Possessing non independent title-page, and masquerading as an appendix to The Defence of Death, a translation of Philippe de Mornay’s Excellent Discours de la Vie et de la Mort…”.

Il prof. Ben R. Schneider, da parte sua, ha scritto che “Something called *Seneca’s Morals*, probably a compendium of excerpts, was published in English in 1607”. Il 1606 e il 1607 sono gli anni delle prime rappresentazioni del King Lear di Shakesperare. La cui prima edizione stampata, in-quarto, è del 1608. Lasciamo la parola ad un esperto come Giorgio Melchiori: “Q1-1608. M. William Shakespeare: His True Chronicle Historie of the Life and Death of King Lear ecc.; editore Nathaniel Butter. Questa edizione viene generalmente chiamata Pied Bull Quarto dal nome dell’insegna Butter (il Toro Pezzato) indicato sul frontespizio. Nonostante la registrazione, si tratta probabilmente di edizione abusiva di un testo dettato sulla base del copione da attori infedeli; contiene perciò molti errori e sostituzioni di parole, ma il testo è sostanzialmente completo.” (Shakespeare, Tragedie, a cura di Giorgio Melchiori, Mondadori).

Infine nel 1614, e quindi solo due anni prima della morte di Shakespeare, Thomas Lodge pubblicò – ma erano anni e anni che ci lavorava – la prima vera organica traduzione dell’opera filosofica senechiana: The Workes both Morall and Natural of Lucius Annaeus Seneca. La figura di Thomas Lodge può avere giocato una parte importante nel piccolo enigma che stiamo investigando in quanto Lodge è l’autore di Rosalynde, la novella che offrì a Shakespeare l’intreccio per il suo As you like it. Gli si attribuisce inoltre una collaborazione con Shakespeare nella stesura di Henry VI; la possibile influenza di una sua opera poetica, Glaucus and Scilla, sul Venus and Adonis di Shakespeare; una qualche sua mano nella stesura del dramma The True Chronicle of King Leir and his three Daughters del 1594, pubblicato anonimo nel 1605 (proprio negli anni di gestazione del King Lear shakespeariano) nel quale però non c’è traccia del passo in questione. Che è ispirato dalla più famosa opera senechiana, le Lettere a Lucilio (Ad Lucilium Epistularum Moralium Libri XX), nella quale, alla Lettera 119, troviamo questo brano (10-11):

10 At hic qui se ad quod exigit natura composuit non tantum extra sensum est paupertatis sed extra metum. Sed ut scias quam difficile sit res suas ad naturalem modum coartare, hic ipse quem circumcidimus, quem tu vocas pauperem, habet aliquid et supervacui. 11 At excaecant populum et in se convertunt opes, si numerati multum ex aliqua dono effertur, si multum auri tecto quoque eius inlinitur, si familia aut corporibus electa aut spectabilis cultu est. Omnium istorum felicitas in publicum spectat: ille quem nos et populo et fortunae sudduximus beatus introsum est.
10 Chi, invece, sa adeguarsi alle semplici esigenze naturali, non solo non sente la povertà, ma non la teme neppure. Ma sappi che è molto difficile limitarsi a possedere quanto richiede la natura; quello stesso che tu chiami povero, possiede anche lui qualcosa di superfluo. 11 Il mondo è abbagliato e affascinato dallo spettacolo della ricchezza, quando si vedo venir fuori da una casa una gran quantità di denaro, quando si vedono i soffitti ricoperti d’oro, quando la stessa servitù si fa notare per la sua prestanza fisica e per le splendide vesti. La felicità esteriore di costoro impressiona il pubblico. L’uomo che noi abbiamo sottratto all’influenza del mondo e della fortuna ha in se stesso la sua felicità. (Seneca, Lettere a Lucilio, traduzione di Giuseppe Monti, Rizzoli)

E’, questo, un tema “virtuoso” diabolicamente e pretestuosamente ripreso in King Lear dalle sue due prima adulatrici e poi irriconoscenti figlie, Gonerill e Regan, cui ha ceduto il regno (loro contraltare è la figura tragica dell’altra figlia, Cordelia) le quali si rifiutano di mantenere un seguito adeguato di cavalieri al vecchio Re. In un crescendo di stupefazione ed amarezza da una parte, e di spudoratezza dall’altro, si arriva a questo momento cruciale (King Lear, II, 4):
GONERILL: Here me, my lord;/ What need you five-and-twenty, ten, or five/ To follow, in a house where twice so many/ Have a command to tend you? REGAN: What need one? LEAR: O, reason not the need! Our basest beggars/ Are in the poorest thing superfluous./ Allow not nature more than nature needs/ Man’s life is cheap as beast’s. Thou art a lady;/ If only to go warm were gorgeous,/ Why, nature needs not what thou gorgeous wear’st,/ Which scarcely keeps thee warm. But for true need…

GONERILL: Sentite mio signore;/ che bisogno avete di venticinque, o di dieci o di cinque con voi,/ in una casa ove due volti tanti/ hanno ordine di servirvi? REGAN: Che bisogno avete sia pur d’uno soltanto? LEAR: Non cavillate sul “bisogno”! Gl’infimi mendicanti/ Nella loro miseria hanno qualcosa di superfluo./ Se si concede alla natura nulla più dello stretto indispensabile/ La vita dell’uomo vale meno di quella della bestia./ Tu sei una gentildonna; se tutta l’eleganza consistesse/ Nell’andar caldi, la natura non avrebbe bisogno/ Di codesti tuoi abiti sontuosi, che non ti tengon caldo./ Quanto ai veri bisogni… (Shakespeare, Tragedie, a cura di Giorgio Melchiori, Mondadori)

Si possono osservare tre cose in comune nei due brani, partendo da quella meno importante: 1) Accenni alla servitù e allo splendore delle vesti. 2) Le parole di Lear: “O, reason not the need! (…) Allow not nature more than nature needs/ Man’s life is cheap as beast’s.” che stravolgono in forma paradossale il ragionamento senechiano illustrato da quel “Chi, invece, sa adeguarsi alle semplici esigenze naturali, non solo non sente la povertà, ma non la teme neppure. Ma sappi che è molto difficile limitarsi a possedere quanto richiede la natura”. 3) Ma soprattutto quel: “ Our basest beggars/ Are in the poorest thing superfluous./” che è quasi una traduzione in forma di condensazione poetica del “hoc ipse quem circumcidimus, quem tu vocas pauperem, habet aliquid et supervacui.” di Seneca. Osserviamoli tutti e due da vicino, in una mia traduzione che cerca di avvicinarsi il più possibile alla lettera:
Latino (Seneca): HIC IPSE QUEM CIRCUMCIDIMUS

Italiano (Seneca): QUELLO STESSO CHE (NOI) ABBIAMO COSI’ DRASTICAMENTE SPOGLIATO

Inglese (Shakespeare): OUR BASEST

Italiano (Shakespeare): I NOSTRI PIU’ NUDI

“Circumcidere” in latino significa “tagliare tutt’intorno”, “limitare”, “togliere via”, “ridurre radicalmente”. In alcune traduzioni italiane il “quem circumcidimus” viene reso con “abbiamo limitato” oppure “ridotto all’osso”, oppure viene bellamente saltato (come nella sopramenzionata traduzione di Monti) perché è difficile tradurlo in un italiano scorrevole, e perché in ogni caso il senso dell’intero passo resta chiaro. Questa riduzione ad uno stato “elementare” viene riecheggiata dall’aggettivo shakespeareano “basest”. Così come il verbo alla prima persona plurale in Seneca ha un eco nel pronome possessivo “our” in Shakespeare.

Latino (Seneca): QUEM TU VOCAS PAUPEREM

Italiano (Seneca): CHE TU CHIAMI POVERO

Inglese (Shakespeare): BEGGARS

Italiano (Shakespeare): MENDICANTI

Latino (Seneca): HABET ALIQUID ET SUPERVACUI

Italiano (Seneca): POSSIEDE QUALCOSA ANCORA DI SUPERFLUO (CONSERVA TUTTAVIA QUALCOSA DI SUPERFLUO)

Inglese (Shakespeare): ARE IN THE POOREST THING SUPERFLUOUS

Italiano (Shakespeare): CON LA PIU’ POVERA DELLE LORO COSE ARRIVANO AL SUPERFLUO
“Habet aliquid et supervacui” si potrebbe rendere con “possiede qualcosa persino (et) di superfluo” oppure con “possiede pur qualcosa e in quel qualcosa, per quanto insignificante sia, c’è perfino il superfluo”. Shakespeare, che non si nega mai nulla, s’inventa un “superfluous” riferito alla persona del possessore di cose “superflue” In una edizione Penguin del dramma commentata da George Hunter il passo è spiegato così: “«Our basest beggars are in the poorest thing superfluous»: even the most deprived of men have among their few possessions something that is beyond their basic needs” ossia “anche i più indigenti degli uomini tra i loro pochi averi possiedono qualcosa che va al di là dei bisogni elementari” che è quasi una traduzione involontaria del passo senechiano. E con questo avrei finito. Caro direttore – responsabile – non si preoccupi: Shakespeare maledì chi avesse rovistato tra le sue ossa, non tra le sue carte. Questo è tutto amore.