Quando Springsteen diventò Springsteen grazie a Reagan
05/06/2014 di Redazione
Esattamente trent’anni fa appariva «Born in the USA», un album con pochi paragoni nella storia della musica americana, che accese l’interesse degli strateghi di Reagan per il cantante. Un interesse che poi si rivelerà determinante per uccidere l’apatia politica dell’artista e capace d’innescare in lui l’accensione di un attivismo che dura ancora.
IL SUCCESSO DI BORN IN THE USA – Le canzoni contenute nel fortunato album sono diventate dei classici in ogni angolo degli Stati Uniti e ancora oggi coprono da sole la maggior parte degli ascolti che riceve l’opera, peraltro fecondo, prodotta da Springsteen in più di tre decenni. E sono quelle canzoni che sono state scelte da numerosi presidenti e candidati per le loro campagne, a cominciare da Ronald Reagan, il presidente che lo ha «scoperto», per finire con Obama, sicuramente il fan più solido che il rocker abbia mai avuto alla Casa Bianca.
L’IDEA DI REAGAN – Secondo Politico, che riprende la notissima storia, fu proprio Reagan a scoprire e innescare il fenomeno, citando Springsteen dietro indicazione dei suoi strateghi in campagna elettorale e costringendolo così ad assumere una posizione politica, cosa che fece e che, evidentemente, gli piacque abbastanza da voler ripetere l’esperienza diverse volte, fino ai giorni nostri. L’idea venne a George Will, consigliere non ufficiale di Reagan durante la campagna per la sua rielezione. Will aveva assistito a un concerto di Springsteen e ne aveva notato l’energia, per questo motivo consigliò a Reagan di citarlo. Citazione figlia di una scelta precisa, i reaganiani davano infatti per certo il voto dei repubblicani e per questo si spingevano a corteggiare pesantemente i democratici e gli indecisi, anche parlando positivamente del rock, a lungo demonizzato dal partito, storicamente contrapposto a ogni genere di liberalismo e ai capelli lunghi.
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LA RISPOSTA – Springsteen si sentì chiamato in causa de Reagan quando questi pronunciò un discorso nel quale citava l’artista; ad esempio: «Il futuro dell’America nelle migliaia di sogni che riposano nei vostri cuori. Che riposa nel messaggio di speranza nelle canzoni di un giovane che così tanti giovani americani ammirano, Bruce Springsteen». La risposta dell’artista arrivò al primo concerto, due giorni dopo, quando dal palco Springsteen richiamò la citazione presidenziale e disse che il presidente forse non aveva mai ascoltato il suo album Nebraska, il precedente. Fine del discorso e inizio di «Johnny 99», pezzo antimilitarista e per niente carico di sogni, che parla di disoccupazione, e delle speranze di una vita decente che se ne vanno. Niente ottimismo reaganiano.
UN RISVEGLIO IMPROVVISO – Prima di quel 1984 di Springsteen non si conoscevano inclinazioni politiche e lui stesso raccontò di aver votato una volta sola in tutta la sua vita, forse, 12 anni prima. Da allora invece non ha mai smesso di spendersi per i candidati democratici e per altre cause che hanno incrociato il suo percorso, un’evoluzione per la quale i democratici americani non possono che ringraziare il maldestro tentativo di Reagan di mettergli addosso la coccarda repubblicana.