Quarto anno di primavera in Bahrein

Categorie: Mondo

Ignorati dai media, i sudditi degli al Khalifa continuano a chiedere democrazia e ricevere in cambio una repressione da stato totalitario

Il 14 febbraio del 2011 una folla si radunò alla rotonda della Perla a Manama. La rotonda della Perla oggi non c’è più, ma la repressione ha cementato  un’opposizione che da tre anni subisce la reazione di una spietata dittatura.



LA DINASTIA PREDONA – Hamad ibn Isa al Khalifa non è per niente diverso dai suoi predecessori e antenati e anche se ha fatto le scuole a Cambridge continua a conservare un’idea proprietaria del paese che mal s’addice alla modernità. Ancora meno s’addice al programma di democratizzazione del medioriente lanciato a suo tempo da Bush, che però evidentemente non ha mai compreso le monarchie del Golfo. Gli avi di Hamad erano predoni in fuga da Nord, cacciati dai turchi, che s’impadronirono del piccolo emirato nel 1797, fiorente porto commerciale del Golfo, e da allora hanno sempre campato e regnato sotto la protezione del padrone  del momento. Persiani, turchi, poi gli inglesi, che con gli accordi del 1880 e del 1892 ne fecero un protettorato.



IL PROTETTORATO BRITANNICO – Quando all’inizio del secolo, nel 1911, i mercanti locali chiesero minor invadenza britannica la repressione fu dura, tra i lamentosi quelli che non scelsero l’esilio volontario furono mandati al confino in India. Nel 1926 arrivò John Belgrave, un britannico arruolato come consigliere per modernizzare il paese con un annuncio sul Times, che resterà a lungo il viceré dell’emirato e nel 1937, con comodo, abolirà la schiavitù. Il paese diventa così un hub petrolifero britannico, tanto che nel 1940 durante la Seconda Guerra Mondiale sarà oggetto di un bombardamento propagandistico ( i danni furono relativi) di una squadriglia aerea italiana partita da Rodi e infine atterrata in Eritrea dopo aver colpito gli impianti petroliferi.



Dove c’era la rotonda della Perla

IL PROTETTORATO AMERICANO – Tramontata relativamente l’influenza britannica, ma soprattutto tramontata la sua potenza militare nella regione, gli al Khalifa hanno accolto con gioia la V Flotta americana e offerto a Washington una strategica base navale sulla via del petrolio, il che sembra assicurare alla famiglia reale un’impunità reale a prova di bomba.Gli al Khalifa si sono distinti nella repressione delle proteste per meticolosità e cattiveria e anche se non hanno fatto strage hanno comunque mandato a morte diverse persone per reati che non sono tali, molte di più ne hanno imprigionate e da tre anni hanno organizzato la repressione scientifica degli oppositori, che incidentalmente sono la maggioranza evidente del milioni d’abitanti o poco più del paese.

METICOLOSI E CATTIVI – Numerosi attivisti per i diritti umani sono finiti in carcere von motivazioni risibili, tra i più noti ci sono Maryam Alkhawaja e la sorella Zainab o Nabeel Rajab, molti di più sono passati direttamente alla memoria come martiri di una ribellione che dopo tre anni e molte violenze non è ancora domata. Il regime procede chiaramente con un occhio all’immagine internazionale e finora è riuscito a mantenerla praticamente intonsa, visto che non si hanno notizia di boicottaggi da parte dei paesi campioni di democrazia e che da Washington sono giunti solo rimproveri formali e forniture d’armi perché «così è più facile influenzare il governo» e limitare la repressione.

PROTETTI DA SAUD E MERCENARI – Governo che peraltro ha spazzato la protesta arruolando mercenari e invitando le truppe saudite nel paese. Così dopo aver mostrato relativa tolleranza per l’occupazione di Piazza della Perla gli al Khalifa hanno scatenato la repressione, hanno sparato sulla folla e da lì è stato un crescendo di follie. Più di 3.000 persone sono state licenziate per aver preso parte alle proteste, l’unico giornale non governativo è stato costretto a pubblica abiura, i medici che hanno curato i feriti dall’esercito in piazza sono stati condannati prima a 15 anni e ancora non si sa.

COME IN COREA DEL NORD – La rotonda della Perla non esiste più e non esiste più il monumento, che era simbolo nazionale, fatto costruire dagli al Khalifa per celebrare il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’alleanza dei tiranni locali. Abbattuto il monumento, al posto della rotonda c’è l’incrocio di sei strade, l’immagine del monumento è sparita anche dalle monete, tutte ritirate. Poi il regime ha arruolato un poliziotto britannico e uno americano specializzati nell’antisommossa, ha comprato quantità incredibili di gas lacrimogeni e da allora quasi tutte le notti inonda di gas i quartieri dove l’opposizione è più forte. Un uso dei gas che è chiaramente un crimine contro la popolazione, ma che sembra accettabile ai media internazionali, magari parecchi moriranno di strane patologie tra qualche anno, l’importante è che ora non si vedano massacri. I numeri non mentono, il governo già qualche mese fa aveva comprato più di 5 lacrimogeni per abitante. Se poi i manifestanti si avvicinano troppo sono presi a fucilate, gli sparano i pallini da caccia, specialità italiana. Oppure li arrestano e spesso li torturano, in ogni caso la giustizia è una farsa gestita dallo stesso regime.

LE RELAZIONI PUBBLICHE – Altra egregia farsa è stata la commissione d’inchiesta internazionale voluta dal regime, che ha correttamente evidenziato quanto sopra e fatto le sue raccomandazioni, che il regime ha promesso di osservare. Morale della favola: non è cambiato niente, se non che i mercenari pachistani guidati dai due capi anglosassoni stanno attenti a non uccidere troppo. Se ci scappa il morto comunque non paga nessuno e comunque ben pochi possono testimoniare quel che succede, il materiale pubblicato in rete dagli attivisti, pur abbondante, non guadagna l’attenzione dei media occidentali. Il paese per di più è off limit ai giornalisti stranieri, salvo quelli al seguito di eventi culturali o sportivi, che in genere tornano a casa senza aver scritto una riga delle proteste e mai dimenticano di citare la squisita ospitalità e il lusso delle strutture costruite con i soldi del petrolio. Nemmeno le polemiche che si sono concentrate sul Gran Premio di Formula 1 ne hanno impedito lo svolgimento, da due anni il circo arriva e riparte tenuto a distanza dalla popolazione e chi parla male della situazione è espulso dal regime o castigato da Ecclestone, secondo il quale ci sono delle malelingue che diffondono informazioni false perché lui non ha visto niente di problematico. Eppure c’è ampia prova ad esempio che il regime abbia raso al suolo tutte le moschee sciite (un centinaio) e se in un paese qualsiasi un altro regime avesse fatto lo stesso con, ad esempio, delle chiese cristiane, si può star sicuri che le opinioni pubbliche delle grandi democrazie sarebbero state informate con dovizia di particolari e non sarebbe mancato un buon numero di media e di politici giustamente veloci nel gridare all’oltraggio e alla barbarie. E invece niente.

TUTTO COME SEMPRE – Il resto è un capolavoro di pubbliche relazioni e costoso lobbysmo, ma non sono i soldi che mancano e così gli al Khalifa dopo la strage alla rotonda della Perla hanno anche potuto permettersi di eccepire sulla risposta del regime di Assad alle proteste senza che nessuno facesse una piega. Il regime dice che a protestare sono terroristi spinti dall’Iran, mentre in realtà le rivendicazioni della piazza sono condivise anche dalla minoranza sunnita e sono le stesse che i locali avevano ai tempi di Belgrave e riportate nelle chiarissime interviste della BBC dell’epoca. Il fatto che nel paese ci sia una maggioranza sciita è ovviamente malvisto dai vicini e potenti sauditi, che comunque da quel che si capisce sono pronti a intervenire anche nei microstati del Golfo per assicurarsi che la repressione di qualsiasi sussulto democratizzante sia rapida e severa.

EPPURE RESISTONO – Purtroppo per loro, non sembra proprio che i suoi abitanti siano dell’idea di accettare il regime così com’è e la repressione non ha fatto che scavare un solco ancora più profondo tra la tirannia e il popolo, al quale è negata prima di tutto la certezza del diritto, come testimoniano le innumerevoli storie di soprusi da parte dei membri della famiglia reale e quelle sulla leggendaria corruzione del primo ministro, sempre lo stesso da 40 anni. Ma il re non vuole cambiare nemmeno lui, che poi è suo zio. Gli abitanti di Manama resistono e negli ultimi tre anni non si sono notati loro cali di tensione e nemmeno evoluzioni verso la lotta armata, tanto che i membri della famiglia reale s’incontrano abitualmente con quelli dell’opposizione in pubblico e senza particolari misure di sicurezza, la migliore dimostrazione che di «terroristi» in effetti non ce ne sono.

UNICI NEL LORO GENERE – La primavera del Bahrein rimane così del tutto originale, non è stata stroncata come in Algeria, Marocco o negli altri paesi del Golfo, ma non è nemmeno riuscita nel suo intento, tanto che oggi il regime è molto più oppressivo di un tempo, anche se questo all’apparenza non ha inciso sulla determinazione e civiltà di chi protesta. Una determinazione ammirevole che merita di essere seguita per vedere cosa riuscirà a conseguire, anche se per ora non cattura nemmeno l’attenzione dei paladini delle rivoluzioni nonviolente, né quella degli ammiratori di Gandhi o degli esportatori di democrazia. Una tirannia feudale come quella del Bahrein dovrebbe essere qualcosa che non ha diritto di cittadinanza nel ventunesimo secolo, una facile coccarda da appuntare ad esempio  al palmares dei grandi democratizzatori americani, che nella loro base in loco hanno abbastanza da conquistare dieci Bahrein in mezz’ora. Se non succede è perché si va bene così e i diritti dei cittadini del Bahrein non interessano a nessuno, se non a loro.