Quel brav’uomo der Canaro… che squartò il suo aguzzino

Categorie: Italia

La storia di una “povera vittima” del bullismo altrui che decide di vendicarsi. Orrendamente



“Cronaca Nera” ogni settimana si occuperà di ricordare quei casi che in passato hanno tenuto banco sui giornali e tra la gente perchè efferati, misteriosi o pieni di scandali e storie scabrose. E, magari, di vedere cosa si è scoperto di più, oggi.

«Ao, nun ridi più eh? Mo vojo vede’ come fai er coatto. ‘Namo su, damme du’ destri, a pugile!». Urla col cuore in gola Pietro. Là, impotente di fronte a lui, Giancarlo. «Daje, ripia a schiaffi er cane. Come, nun je la fai? Me fai schifo!». Lo sputo lo colpisce in faccia, un centimetro appena sotto l’occhio. Come è finito in questa situazione, Giancarlo ancora non l’ha capito. O meglio, l’ha capito eccome, ma non se ne capacita. Lui, “er più dritto della Magliana” come lo chiamano tutti, rinchiuso dentro una gabbia da Pietro. Dar canaro. Questa sì che è divertente, penserebbe in un’altra occasione. Adesso no. Adesso la testa gli sta scoppiando e Pietro continua a colpirla col bastone. Adesso, l’unica cosa che pensa è quanto potrà resistere prima di svenire. Poco spera. Poco. E quando arriva il colpo, il buio cala. Ma solo per un attimo.

PREMONIZIONI – Che sarebbe stata una mattinata storta, Giancarlo lo aveva capito da subito. Com’era sceso dal letto la madre aveva cominciato con una tarantella delle sue: «Mo’ che hai trovato er posto la devi smette de spaccia’. Nun poi continua a fa ‘sta vita, c’hai quasi trent’anni Gianca’: tu padre all’età tua già c’aveva un fijo. Te capisco, fa’ er netturbino nun è er massimo, ma vedrai che te sistemi: trovi ‘na bella regazzetta e te ce sposi». E così di questo passo. Sembrava un disco rotto. E quella mattina proprio non ce la faceva a sentirla. Sarà che aveva ancora gli schizzi di cocaina che gli salivano al cervello. Per cui fece l’unica cosa sensata: prese e uscì di casa. Senza nemmeno aspettare il caffè. E sì che per lui uscire di casa senza il caffè era una cosa inimmaginabile: come il Tevere senza i ponti, la carbonara senza guanciale. Inimmaginabile, appunto. A questo punto, se voleva dare una svolta alla giornata, pensò, c’era solo una cosa da fare: passare da Pietro a sentire quello che voleva, dato che la sera lo aveva chiamato tutto agitato, sfotterlo un po’, mollargli un paio di sani cazzotti in faccia, e tanti saluti. Sì, non c’era alternativa. Prima però c’era la faccenda del tossico da sistemare. Erano due giorni che gli doveva portare la roba. Difatti stava davanti al bar ad aspettarlo. Di bersi un caffè in santa pace non c’era verso. Conveniva fare un giro unico: farsi accompagnare dal tossico, passare da Pietro, poi andare a prendere la roba. Non c’era altra soluzione: il caffè doveva aspettare.



QUESTIONE D’ONORE – Anche perché per Giancarlo il primo caffè era come un rito composto da tanti passaggi. C’erano i lenti sorseggi che facevano accendere i sensi piano piano. La prima boccata di sigarettae il pigro risvegliarsi dell’intestino. Il giornale con i fatti ormai vecchi, di cui la televisione accesa dava oramai un’altra versione. E, infine, il bagno: la prima soddisfazione della mattina. Per cui di prendere il caffè qui, in piedi, al bar, non se ne parlava proprio. Uno scatto, una parola, e già è dentro la Giulietta con il tossico. Direzione: il negozio di Pietro. Che poi chiamarlo negozio era un’offesa a tutti gli altri della zona. Una toilette per cani aveva messo su quel deficiente. Chissà come gli era venuto in mente, si domandò. Ma la risposta se l’era già data: era un deficiente. Punto sul quale non c’erano dubbi. Cos’è che gli aveva detto quand’era uscito? Che voleva la sua parte! La sua parte, incredibile! Pure le pulci c’hanno la tosse, aveva pensato Giancarlo in quell’occasione. Poi erano state botte. Tante botte. E sì che, in fin dei conti, Pietro c’aveva ragione. Gli aveva dato le chiavi del “negozio” senza fare un fiato. E quando i carabinieri era andati a prenderlo, non una parola era volata. Altro che scemi: come avevano visto il buco nel negozio svaligiato avevano sospettato subito al proprietario di quello accanto. Poco importa se l’alibi era vero e Pietro stava in Ciociaria: il piano prevedeva un complice, gli dissero, tanto valeva che parlasse perché tanto dentro sarebbe finito lo stesso. Ma Pietro era stato irremovibile: la spia la fanno gli infami. E lui tutto era tranne che quello. Peccato, però, che quando andò da Giancarlo, dopo dieci mesi di prigione, per battere cassa e prendere la metà del bottino, cinquanta milioni, rimediò solo tante mazzate.

ENTRAPMENT – Pure le pulci c’hanno la tosse, aveva pensato Giancarlo in quell’occasione. E quanto si era divertito mentre gli menava. Adesso al solo pensiero sentiva fremere le nocchie. Fortuna che erano arrivati. Come scende Giancarlo capisce subito che c’è qualcosa di strano nell’aria. Pietro è agitato, nervoso, si muove a scatti. Continua a parlare a raffica e si gira a destra e a sinistra stando attento a che nessuno lo veda. «C’ho ‘na grande occasione», dice Pietro. «Sta arriva’ ‘no spacciatore: me deve porta cento grammi de cocaina. Mo te fai ‘na bella cosa: te nascondi qua dentro», dice indicando una gabbia per cani minuscola, sufficiente a malapena a contenerlo, «e come arriva esci fori e lo ammazzi de botte, così se piamo la roba. Però stavorta steccamo, se no nun se fa niente!». Steccamo, steccamo, come no, pensa Giancarlo. E senza pensarci due volte, senza sospettare niente, entra nella gabbia. Nemmeno quando sente il chiavistello chiudersi alle spalle realizza quello che sta succedendo. Solo quando la faccia gli diventa rovente e gli occhi iniziano a bruciare come le fiamme dell’inferno Giancarlo capisce che quello che gli ha tirato in faccia Pietro è benzina. E quella una trappola. Sì, non c’è che dire, questa giornata è cominciata proprio male, pensa Giancarlo. Ma a spaventarlo non è tanto la situazione in cui si trova: chiuso dentro una gabbia minuscola, la faccia ustionata dal fuoco e la testa ridotta a un ammasso di sangue. A spaventarlo, o meglio, a terrorizzarlo, è lui: il Canaro. Non l’ha mai visto così: ha gli occhi che sembrano uscirgli dalle orbite, parla in tono rabbioso dicendo cose sconnesse e si muove a scatti. Ma non è nemmeno tanto questo, quanto quello che capisce sta avvenendo. Il Canaro si sta per vendicare di anni e anni di soprusi. Si sta per vendicare di tutte le centinaia di botte che gli ha dato. Di tutti i soldi che gli ha fregato. Di ogni abuso che gli ha fatto. Prova a urlare Giancarlo, ma sa che nessuno lo sentirà. Lo stereo di Pietro è troppo alto. Questo sì che è uno buono, non come quello che gli ho preso l’altra volta, pensa per un secondo. Poi ripiomba nel terrore: si è fatto dare duecento carte per ridarglielo: ne ha di cose di cui vendicarsi Pietro. Ne ha infinite di cose. In un impeto di forza Giancarlo riesce a sfondare la rete della gabbia. Pietro non si lascia sorprendere. Il bastone lo colpisce come un maglio. Una, due, tre, quattro volte. Poi smette di contare e sviene.



DAJE, PUGILE – Quando riprende i sensi, Giancarlo capisce che avrebbe fatto meglio a non riaprirli mai più gli occhi. Legato mani e piedi, è appeso a uno dei ganci a cui Pietro assicura i cani mentre li tosa. Sente un dolore atroce che da ogni arto gli arriva al cervello. Vorrebbe urlare, ma ha la bocca chiusa da un fazzoletto, riesce a malapena a respirare. Il dolore lo sta facendo impazzire, e non capisce neanche da dove proviene. Poi alza gli occhi e inizia a contorcersi per liberarsi. Dio mio, dio mio, pensa, sto per morire. Davanti a sé, in unaciotola, ci sono almeno quattro dita. Almeno quattro delle sue dita. Il Canaro lo guarda, dà un tiro di coca e si avvicina con le cesoie. «Daje pugile, nun te sta a preoccupa’: ne rimangono solo sei!». Il rumore è quello di un ramo che si spezza: stock. Il dolore, invece, non può essere descritto. Stock. Stock. Stock. «Mo stamo a meno tre», dice er Canaro. Il sangue schizza ovunque. Pietro capisce che se continua di questo passo Giancarlo sarà morto entro pochi minuti. E lui non vuole. Questo momento se lo deve gustare per benino. Sono anni che subisce i soprusi di Giancarlo. Adesso che il ruolo della vittima si è invertito, il momento deve durare all’infinito. Pietro prende la benzina e la versa sulle ferite di Giancarlo. Lo vede contorcersi e dimenarsi e, più lo fa, più lui si eccita. Ne versa ancora. Poi lo guarda negli occhi e gli dà fuoco. Capisce il dolore che sta provando solo guardandolo. L’importante è che il sangue si sia fermato: le ferite si sono cauterizzate. L’importante è che il gioco vada avanti. Ora bisogna sistemare il tossico. Alla fine è quasi un’ora che sta là fuori: bisogna inventarsi qualcosa. esce e gli racconta la prima cosa verosimile. «Guarda è mejo che vai via», dice er Canaro. «Er tipo che avemo fottuto è un siciliano, Giancarlo deve sta’ parato per un po’. Ha detto che vai a casa e je parcheggi la macchina davanti al bar». Giancarlo oramai ha perso ogni speranza. Nell’oblio in cui si trova adesso aspira solo a morire. E spera che la Nera Signora venga presto a fargli visita. Ma la sua è un’illusione pia. Pietro torna ed è più eccitato che mai. Un’altra botta di coca e ancora le cesoie in mano. Lento gli sfila il fazzoletto dalla bocca, ma prima che lui riesca anche solo a dire una parola, la lingua è volata via. Tranciata di netto, zacPietro però ancora non è soddisfatto. Deve ancora completare la sua opera. E con mano certosina inizia il nuovo lavoro. Prima è il naso a sparire. Poi le orecchie. Seguono gli zigomi e le guance. «Ecco, mo sei quasi bello come un pitbull!Anzi, mo sei uguale a un pit!», dice ridendo er Canaro.

CALA IL SIPARIO – Giancarlo ora non sente più nulla. Il dolore è talmente forte che non riesce più a distinguerlo. Ti prego finiscimi, pensa. Ma Pietro, anche se lo sentisse, non esaudirebbe mai il suo desiderio. Con mano veloce gli sfila via i pantaloni e gli trancia di netto il sesso. Giancarlo, la faccia coperta di sangue, riesce a malapena a vedere quello che sta succedendo. Il vomito gli sale in gola. Pietro ride, prende la benzina, la versa su quello che rimane della sua virilità e gli dà nuovamente fuoco. Poi si volta, e con la massima tranquillità del mondo prende le chiavi della macchina e fa per uscire. «Sono le quattro e mia figlia sta uscendo da scuola. Devo andarla a prendere. Ma non preoccuparti: torno subito», e chiude dietro sé la porta. Giancarlo, o meglio, quello che rimane di Giancarlo, è praticamente senza vita. Praticamente perché, per sua sfortuna, l’estremo saluto ancora non gli è stato concesso. Deve attendere. Attendere. Ogni attimo dura un anno, ogni secondo decenni, ogni minuto secoli. Poi Pietro torna. «Adesso la famo finita», dice. E quello che rimane di Giancarlo vorrebbe quasi ringraziarlo. Ma ancora non ha capito. Pietro prende ad uno ad uno i pezzi che ha strappato dal suo corpo e inizia a infilarglieli in gola. Prima le dita: una, due, tre, fino ad arrivare a nove. Poi le orecchie, la lingua, gli zigomi, le guance. Infine Pietro prende l’ultimo dito. Lo guarda, sorride, e glielo mette lì, in culo. E in questo momento, in questo preciso istante, Giancarlo sente che la vita lo sta abbandonando, ed è quasi contento. Avrei voluto solo bere un caffè oggi, pensa. E il buio cala. Per sempre.

GIUSTIZIA? – A ritrovare il suo corpo, o meglio, quello che rimane del corpo di Giancarlo è un allevatore. L’alba è passata da poco e le pecore stanno mangiando. C’è un fagotto che brucia e va a vedere. L’orrore lo ferma a metà strada: non è un fagotto, è un corpo. Quello che rimane di un corpo. Neanche i più duri agenti della Mobile riescono a guardare quella scena, quel pezzo di carne umana. Che loro ricordino, una scena così non si era mai vista a Roma. E quando la notizia esce sui giornali, c’è la stessa sorpresa: in Italia una cosa così macabra non era mai avvenuta. Mai. Almeno a memoria d’uomo. La caccia all’uomo è spietata. Tutto il Paese è inorridito dal fattaccio. Chi ha fatto questo deve pagare. Chi ha ucciso Giancarlo Ricci deve essere consegnato alla giustizia. Deve. L’ordine, partito dai piani alti, riecheggia su ogni volante. La Magliana è messa sotto ferro e fuoco. Ottantacinque persone vengono fermate. Anche il tossico che stava fuori il bar. Il tossico che aveva accompagnato Giancarlo da Pietro. Il tossico che racconta: saranno stati i siciliani, me l’ha detto er Canaro. Er canaro? Sì, sì, er Canaro, proprio lui. Proprio lui. Che nega quando gli agenti vanno a chiedergli la storia del siciliano. Nega quando gli dicono che non convince nessuno. Nega quando trovano le macchie di sangue nel suo negozio. E sul suo portafoglio. E sul portabagagli. E sulle scarpe. E poi non nega più. «Sì», dice, «sono stato io. Gli ho tagliato le orecchie come a un doberman, gli ho aperto la testa e gli ho lavato il cervello con lo shampoo dei cani. Non ne potevo più di quell’infame. Guardate che gli ho fatto al grande pugile! L’ho smontato pezzo per pezzo, e ci sono riuscito perché lui era più grosso, ma io sono più intelligente». Il motivo?, chiedono gli agenti. «Mi insultava, mi sfotteva, m’aveva rubato la radio e per ridarmela m’aveva scucito duecento sacchi. Ma la cosa che m’ha fatto uscire di testa è stato quando ha preso a calci il mio cane. Che c’entrava lui?». La prima perizia lo dice chiaro e tondo: Pietro De Negri, Er Canaro, al momento del delitto era incapace di intendere e di volere. Ed è pericoloso socialmente. Il 12 maggio 1989, dopo nemmeno a un anno e mezzo di distanza da quel fatidico 18 febbraio 1988 che aveva cancellato Giancarlo dalla faccia della terra, Pietro torna a casa. Solo per un attimo. Sei giorni dopo è di nuovo in cella: altri periti la pensano diversamente. Così i giudici: venticinque anni in primo grado; ventisette in Appello; ventiquattro e dieci mesi in Cassazione. Di anni, alla fine, se ne fa diciassette. Il 27 ottobre del 2005 è fuori. Nessuna intervista, nessuna apparizione in tv. Vuole solo scomparire Pietro. Er Canaro della Magliana.