Quelle trivelle che minacciano il Mar Mediterraneo

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Le compagnie petrolifere all'assalto del "Mare nostrum", grazie ad esenzioni, agevolazioni e a una politica compiacente. Dal regalo di Passera alla retorica di Zanonato poco è cambiato. A rischiare per il futuro sarà soprattutto il Canale di Sicilia. Tutti i rischi per l'ambiente, il settore ittico e il turismo

Per i petrolieri è un Eldorado da conquistare,  per gli ambientalisti e i comitati cittadini un bene comune da difendere, di fronte all’avanzata delle trivelle. Dopo aver “colonizzato” l’Adriatico e il Mar Ionio, le maggiori compagnie nazionali ed estere continuano l’assalto al Mar Mediterraneo – compreso il Canale di Sicilia – approfittando di una politica compiacente, nonché di agevolazioni ed esenzioni fiscali. A poco sembra essere servito l’appello dei territori e di associazioni come Greenpeace, Wwf e Legambiente, al grido di “U mari nun si spirtusa”. Ovvero, “Il mare non si buca”, tradotto dal dialetto siciliano. Ad avere la meglio sembrano essere gli interessi dei privati, lanciati nella corsa alle perforazioni, alla ricerca di gas e petrolio.



Photocredit: Greenpeace La campagna “U Mari nun si spirtusa”

L’INCUBO TRIVELLE NEL MARE NOSTRUM E IL PASTICCIO NORMATIVO – Il regalo più atteso lo aveva fatto il governo Monti, nel 2012:  attraverso una contestata “sanatoria”, era stato il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera ad andare in soccorso alle richieste degli industriali del petrolio, pronti a dare la caccia al tesoro nero tra i fondali dei mari italiani. Di fatto, stravolgendo il quadro normativo allora esistente in materia di perforazioni. A frenare la corsa era stato nel 2010 il decreto Prestigiacomo, approvato dopo un grave disastro ambientale avvenuto nel golfo del Messico, con l’esplosione della piattaforma petrolifera  Deepwater Horizon della BP e il pesante sversamento di petrolio nelle acque, con gravissimi danni per tutto l’ecosistema. Una prospettiva che aveva rilanciato le proteste dei comitati civici ed ambientalisti, anche in Italia, fino all’innalzamento – attraverso il decreto – del limite entro il quale autorizzare nelle aree protette marine prospezioni e ricerche di idrocarburi. Il provvedimento della ministra Stefania Prestigiacomo, che elevava il vincolo da 5 a 12 miglia marine (l’equivalente di circa 19 chilometri, ndr, rispetto alla soglia precedente di 9),  subì pesanti critiche da parte delle maggiori compagnie petrolifere. Tanto che fu l’Associazione italiana per l’industria mineraria e petrolifera, associata a Confindustria, a “denunciare” il rischio di perdita di «ingenti riserve di gas e petrolio», oltre che l’attivazione di  “quindici miliardi di euro di investimenti, quasi un punto di Pil, e 25mila posti di lavoro stabili e addizionali”. Cifre che, secondo Greenpeace, erano quantomeno “fantasiose”. Ma non solo: l’associazione dei petrolieri paventava mancati introiti in termini di entrate fiscali per lo Stato italiano pari a 2,5 miliardi di euro, oltre che un crollo degli ordinativi per 3/4 miliardi. Con tanto di ricaduta occupazionale, in un settore che conta nel nostro paese circa 65mila dipendenti.

L’ex ministro del Mise Corrado Passera

DAL DECRETO PRESTIGIACOMO AL “REGALO” DI PASSERA AI PETROLIERI – Passato l’onda emotiva, però, già la stessa ministra in quota Popolo della Libertà tornava sui suoi passi, dando il via libera alla ricerca di idrocarburi nell’Adriatico, a pochi chilometri dalla riserva marina delle isole Tremiti. Alla Petroceltic Italia (società controllata dall’omonima multinazionale irlandese) veniva concessa la possibilità di cercare petrolio in un’area di 730 chilometri quadrati, al largo delle coste di Abruzzo e Molise,  in aree marine dove la profondità minima era di 130 metri. Un progetto giudicato come “folle” dalle associazione ambientaliste. Ma la beffa sarebbe arrivato poco più tardi, con il decreto “Cresci-Italia” del ministro Passera, titolare del dicastero per lo Sviluppo economico nel successivo “governo dei tecnici”, quello guidato da Mario Monti. Eppure la mossa del ministro era tutt’altro che “tecnica”. Con un provvedimento criticato come “pro-petrolieri”, poi convertito in legge nell’agosto 2012, venne da una parte confermato il limite delle 12 migliaesteso anzi a tutte le coste, comprese le aree non protette – , ma dall’altra venivano “salvate” tutte le richieste già in atto, compresi i procedimenti concessori precedenti al decreto Prestigiacomo del 2010. Un vero condono, con tanti saluti alle restrizioni di legge, aggirate attraverso l’espediente contenuto nel contestato articolo 35:



«[…] Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, fatti salvi i procedimenti concessori di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge n. 9 del 1991 in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010 n. 128 ed i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi, nonché l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla medesima data, anche ai fini della esecuzione delle attività di ricerca, sviluppo e coltivazione da autorizzare nell’ambito dei titoli stessi, delle eventuali relative proroghe e dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi. Le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale […]»

Ma non solo: non bastasse la “sanatoria”, nel marzo 2013 il governo Monti, seppur dimissionario, ha anche approvato la Sen, la Strategia energetica nazionale, che – come precisa il Wwf – prevedeva un «irrealistico raddoppio della produzione nazionale di idrocarburi». Un progetto faraonico che, per quanto riguarda le trivellazioni nei mari italiani, includeva tra le aree minerarie anche aree dall’alto valore ambientale e biologico, come il Golfo di Venezia, quello di Taranto – già costretto a subire le conseguenze dell’affaire Ilva – e il Canale di Sicilia. Senza dimenticare le coste abruzzesi: proprio a Pescara lo scorso aprile è stata organizzata un’imponente manifestazione – con circa 30mila persone – per protestare contro il progetto di Ombrina Mare e le trivellazioni nell’Adriatico. Tra “sanatoria Passera” e Sen, veniva così riaperta la corsa all’oro nero tra i mari italiani, assaltati dalle trivelle delle maggiori compagnie petrolifere. Una situazione che non è certo cambiata con il governo Letta, così come hanno denunciato Greenpeace e il Wwf, nonostante la propaganda fatta dal nuovo ministro Flavio Zanonato, successore di Passera.



Il ministro del Mise Flavio Zanonato

CON ZANONATO NON CAMBIA NULLA – Chi si aspettava che l’ex sindaco di Padova intendesse modificare le gentili offerte di Passera ai petrolieri è rimasto deluso. Con la beffa aggiuntiva della retorica ambientalista del ministro, che si è vantato con un comunicato stampa di aver sottratto 116mila chilometri di aree marine prime aperte ai petrolieri, attraverso l’approvazione del decreto ministeriale del 9 agosto 2013. «Il decreto determina un quasi dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore, che passano da 255 a 139 mila chilometri quadrati, spostando le nuove attività verso aree lontane dalle coste e comunque già interessate da ricerche di Paesi confinanti, nel rispetto dei vincoli ambientali e di sicurezza italiani ed europei», si leggeva.

Photocredit: Wwf

LA BEFFA DI FLAVIO ZANONATO – Peccato che, come spiega Stefano Lenzi, autore insieme a Fabrizia Arduini del dossier “Trivelle in Vista” si trattasse soltanto di un bluff.  Il motivo?  Zanonato ignora con il suo decreto la sanatoria concessa da Passera alle trivellazioni nelle aree comprese tra 5 e 12 miglia, prima vietate dal decreto Prestigiacomo del 2010. «Il Governo in estate ha introdotto delle limitazioni, ma non è intervenuto sugli effetti della sanatoria del Decreto Sviluppo del 2012», chiarisce Lenzi a Giornalettismo. Non certo una questione irrilevante: considerata la sanatoria, pur ricadendo nelle aree interdette dal decreto ministeriale di Zanonato, restano valide vecchie istanze di coltivazione come quella della Medoil Gas di Ombrina Mare (a soli 6 chilometri dall’area in cui si prevede l’istituzione del Parco della Costa Teatina in Abruzzo), così come il permesso di ricerca dell’AUDAXPantelleria, nel Canale di Sicilia, in un’area di ben 657 chilometri quadrati e forte pregio naturalistico, oltre che sede di un’intensa attività vulcanica sottomarina (con tutti i rischi connessi in termini di possibili incidenti, ndr). Stesso discorso anche per le 8 istanze di permesso di ricerca nella baia storica di Taranto. Tutto per l’interesse di pochi industriali, i titolari delle compagnie petrolifere, ai danni della collettività. Ma non solo: con la realizzazione della nuova mappa delle aree marine aperte a nuove istanze, viene anche creata dal nulla una nuova “zona E”, ad ovest della Sardegna, verso le Baleari, ancora più grande della stessa Corsica.  Il rischio, in pratica, è che non cambi nulla. Altro che dimezzamento:  «Cambierà per il futuro, ma allo stato attuale la situazione è già compromessa», continua Lenzi.

Tutti i progetti (Photocredit: Wwf)

TRIVELLE E CIFRE – I numeri sono già preoccupanti, come si legge nel rapporto del Wwf:

«Ad oggi sono attive nei mari italiani: 3 istanze di permesso di prospezione (in un’area di 30.810 kmq), 31 istanze di permesso di ricerca (in un’area di circa 14.546 kmq), 22 permessi di ricerca (in un’area di circa  7.826 kmq), 10 Istanze di coltivazione (in un’area di circa  1.037 kmq), 67 concessioni di coltivazione (che occupano un area pari a 9.025 kmq) con 396 pozzi produttivi in mare di cui  335  a gas e 61 a petrolio. 104 sono le piattaforme di produzione,  8 quelle di supporto alla produzione, 3 unità galleggianti di stoccaggio temporaneo»

La mappa aggiornata con le differenti aree marine che possono essere interessate dalle attività di ricerca e coltivazione. Ad ovest della Sardegna la nuova “area E”

Con il mantenimento degli effetti della sanatoria e il nuovo Dm Zanonano, come dimostrano anche i numeri, secondo Lenzi, il Mediterraneo è di fatto diventato un “campo libero per i petrolieri”. Basta considerare «una serie di agevolazioni, esenzioni fiscali e normative a favore degli industriali»,  che rendono l’estrazione e la ricerca petrolifera nel nostro Paese, in termini di rapporto tra costi e benefici, «un’attività a forte vantaggio degli industriali». Tanto che i nostri mari sono stati presi di mira anche dalle maggiori corporation straniere. Un esempio? La questione delle royalties, con le compagnie che si ritrovano a dover versare soltanto una quota tra il 7% – per il petrolio on/offshore – e un massimo del 10%, «quando la media mondiale, oscilla tra il 20 e l’80 per cento», precisa Lenzi. Paragonando quanto pagano in altri Stati le imprese petrolifere, si capisce come in Italia parlare di “agevolazioni fiscali” sia quasi un eufemismo. Quelle italiane sono infatti le royalty più basse al mondo, irrisorie rispetto a quelle previste in Guinea (25%) , in  Venezuela (33%), in Libia (85%), in Arabia Saudita (50%) , in Russia (80%), in Canada (50%), in  Alaska (60%) e in Norvegia (80%). Soltanto per fare alcuni esempi. Spesso poi non vengono nemmeno pagate. Meno della metà delle aziende titolari dei progetti di coltivazione (estrazione) di gas e petrolio versano allo Stato i “crediti” per lo sfruttamento delle risorse. La legge prevede infatti l’esenzione dal versamento delle somme di denaro, per quanto riguarda i progetti in mare, per quelli che non superano la franchigia di 80 milioni di Smc (metri cubi standard di gas, prima la soglia era di 50 Smc). Di fatto su 50 progetti oggi produttivi  – su un totale di 67 progetti di coltivazione – nemmeno il 50% di questi paga alcuna royalties. E per quanto riguarda i canoni di concessione? Discorso simile: «Sono risibili e non incidono minimamente sui costi di produzione», ricorda Lenzi. Per quanto riguarda i titolari dei progetti, ben 60 su 67 presentano l’Eni titolare o contitolare. Tra i soggetti che hanno presentato le istanze poi, ci sono anche i colossi stranieri come la Petroceltic, la Northern Petroleum e la Appennine Energy. Spesso le compagnie compiono errori grossolani nella stesura delle istanze per ottenere le concessioni per la ricerca e la coltivazione. Come spiega Fabrizia Arduini del Wwf, ci sono società che si limitano ad “operazioni di copia-incolla, tanto da descrivere faune inesistenti e copiare, ai limiti del paradossale, descrizioni presenti in siti on line di vacanze”. Tutto con un’approssimazione che poco rassicura anche in termini di sicurezza, anche perché mancano controlli effettivi ed eventuali sanzioni.

Canoni vantaggiosi in Italia (Photocredit: Wwf)

 

Per il futuro è soprattutto il Canale di Sicilia, compresa l’area di Pantelleria, la fascia di mare a più alto rischio, secondo le stime del Wwf. Quest’area, compresa nella “fascia G”, ha visto a partire dal 2011 un’impennata nelle richieste di permessi (ben 11 su un totale di 31).  «Positivo è il fatto che per il futuro sono state stabilite delle zone di interdizione: nel frattempo i signori del petrolio potranno scordarsi un iter semplice, dalle istanze fino alle coltivazioni. Saranno le associazioni e i comitati cittadini a portare avanti le proteste, utilizzando tutti gli strumenti necessari, compresi i ricorsi in sede di Via (la valutazione d’impatto ambientale, ndr) per evitare di correre rischi», aggiunge Lenzi.

RISCHI  – Ma quali sono i pericoli? In particolare si teme per il rischio incidenti, le cui conseguenze restano quasi impossibili da limitare: «Lo dimostra il precedente del Golfo del Messico, ma non solo», spiega Lenzi. Senza considerare l’inquinamento ordinario connesso alle attività di ricerca e coltivazione: «Dai fanghi perforanti alle acque di produzione non mancano le sostante tossiche e i metalli pesanti» ricorda, sottolineando come il Mar Mediterraneo sia già di per sé quello con gli indici di inquinamento più elevati, da un punto di vista degli idrocarburi. Con gravi danni all’ecosistema e alle risorse ittiche e il rischio di danni alla stessa salute umana (gli idrocarburi hanno effetti cancerogeni, ndr).

VANTAGGI SOLTANTO PER I PETROLIERI – Quello al mar Mediterraneo è ormai un vero assalto, nonostante il petrolio italiano sia considerato di scarsa qualità, perché pieno di sabbie e di complessa lavorazione. Ma non solo: a poco servirebbe l’estrazione anche in termini di copertura energetica: lo ricorda a Giornalettismo anche Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia: «Secondo stime ufficiali dello stesso Mise (il Ministero per lo Sviluppo economico, ndr) nei nostri fondali marini ci sono appena 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Risorse che coprirebbero il fabbisogno nazionale, considerati i consumi attuali, per non più di sette settimane». Giannì attacca il decreto Zanonato, accusandolo di limitarsi a ratificare quanto prevede l’articolo 35 del decreto Passera. Ma non solo, Giannì svela anche altri aspetti che lasciano perplessi, a partire dalla divisione in tre parti, nel nostro Paese, del procedimento di valutazione d’impatto ambientale: «Le imprese prima chiedono la richiesta di fare la sperimentazione sismica (prospezione), poi, se viene accordata, si portano avanti le attività di trivellazione sperimentale. Soltanto se si trova il petrolio, si va avanti con la coltivazione». Ma questo “spacchettamento”, sostiene Giannì, è vietato dalla direttiva comunitaria in materia, considerato come «non abbia molto senso concedere la possibilità di realizzare analisi sismiche in aree nelle quali poi non sarà concessa la trivellazione». Per questo si è rivolto al Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando: «Ci ha spiegato come tutto sia dovuta alla separazione dei procedimenti al Mise. Ma se questo è vero, è ovvio che ogni fase deve rispettare la legge vigente al momento, altrimenti lo spezzettamento della Via di un procedimento unico non è nient’altro che l’ennesima violazione italiana della direttiva 85/337/Cee sulla valutazione dell’impatto ambientale», chiarisce.

Le aree interessate dalle trivellazioni

 

LA GUERRA DEL PETROLIO – Quello che preoccupa è un’espressione presente nell’articolo 35, quella di “atto conseguente”: «Se si viene autorizzati alla prospezione sismica, qualora i procedimenti siano separati, l’unico atto conseguente dovrebbe essere la concessione all’analisi sismica stessa. Punto», incalza Giannì. Il timore, invece, è che siano intese come conseguenza tutte le fasi, compresa la coltivazione. In pratica, in piena violazione della direttiva comunitaria. Ma Giannì denuncia anche lo scoppio di una sorta di “guerra del petrolio”. Dopo l’approvazione della Sen, l’Italia decise di rivendicare – spiega il direttore di Greenpeace – alcuni fondali marini con l’obiettivo dell’estrazione petrolifera, ben oltre il limite della cosiddetta “mezzeria”, ovvero l’equidistanza tra Malta e la Sicilia. Prima di venire sostituito, il governo Monti creò così nuove tensioni in un’area ancora contesa, tra Malta e la Libia. Tanto che nello stesso paese maltese si “rispose” alle provocazione con il ritorno dei sequestri dei pescherecci. Due lo scorso agosto furono quelli seguiti dalle vedette locali e poi fermati: una vicenda chiusa con il pagamento di una multa in denaro (dovuto al presunto sconfinamento e alla pesca abusiva), ma di rado arrivata nella pagine dei media nazionali. Un conflitto condotto sulle spalle di tanti pescatori italiani. «Quando c’è da fare tutela ambientale, si spiega come bisogna mettere tutti d’accordo, dai paesi esteri alle questioni interne, mentre quando si tenta di  ridare una possibilità all’industria petrolifera, così come alla pesca di ripopolarsi, allora emergono tutti i problemi. Giannì ricorda come anche il capo della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Mise, Franco Terlizzese, mostrò dubbi sul decreto ministeriale di Passera che rendeva l’Italia protagonista nel possibile scontro con Malta e Libia. In pratica, con il decreto Passera si allargava a dismisura la “piattaforma continentale” italiana, creando da zero l’ “Area marina C- Settore Sud”, grande quanto due terzi della Sicilia, oltre che sovrapposta ad alcune aree già rivendicate dall’isola dei Cavalieri. Un’area ricca di biodiversità ora a rischio. Basta ricordare come Malta abbia concesso alla corporation Heritage Oil due aree (la 2 e la 7), considerate vicine anche al “Medina Bank 1”, un pozzo petrolifero già trivellato a partire dal 1980 dalla stessa Texaco. Allora Texaco non riuscì a trovare idrocarburi, ma fu in grado di spingere una controversa internazionale tra Malta e Libia. Un “conflitto straccione” – come lo etichetta il direttore – al quale si è inserita anche l’Italia. «Anche se Malta viene criticata per aver compiuto atti unilaterali, l’Italia non può rispondere con un fallo a un altro fallo», spiega Giannì. Anche perché si creano nuove tensioni in un’area nella quale ci sarebbe bisogno di ben altro, dopo il dramma del naufragio di Lampedusa: «Per pochi soldi ci inseriamo in un dibattito inutile. Sarebbe meglio puntare su una rete di aree protette per difendere il Canale di Sicilia (così come previsto dal Protocollo Aree Protette della Convenzione di Barcellona, ndr),  non inserirsi in uno scontro non semplice», aggiunge il direttore. Per Giannì l’Italia dovrebbe valorizzare un’area così ricca di biodiversità come il Mediterraneo, tutelando così anche i settori di turismo e pesca. «Si può anche comprendere se un paese come la Polonia difende il suo carbone, o la Russia il suo petrolio, ma che l’Italia speri di rendersi energeticamente indipendente andando a contendere le riserve a Malta e Libia mi sembra ridicolo», incalza Giannì. Tutto quando basterebbe scegliere la strada dell’efficienza energetica, da imporre ai produttori di auto, insieme a standard di emissioni più severi. «L’impressione è che, prima o poi, sarà la storia a imporre ad una classe politica non in grado di saper leggere le sfide del presente e del futuro prossimo una netta discontinuità in materia di politiche energetiche», conclude il direttore delle campagne di Greenpeace Italia.

I PERICOLI PER IL COMPARTO PESCA E L’IMPEGNO DI ANAPI – Accanto alle associazioni ambientaliste si sono schierate anche le associazioni di categoria del turismo e della pesca, preoccupate per l’impatto delle trivelle sull’ecosistema del “Mare Nostrum”. In particolare, come spiega Piero Forte, presidente regionale di Anapi Sicilia (Associazione nazionale autonoma piccoli imprenditori della pesca) le perforazioni rischiano di sconvolgere «un universo sottomarino di banchi e fondali ad altissima biodiversità, un’enorme ricchezza che andrebbe tutelata e non messa in pericolo». A Giornalettismo, Forte ricorda come lo scorso anno le associazioni di categoria del comparto ittico abbiano sostenuto le campagne di Greenpeace, Wwf e Legambiente: «Dopo l’approvazione del decreto Passera, il 9 ottobre 2012 dovevamo incontrare l’ex ministro dell’Ambiente Clini, ma lui non si è fatto vedere. In pratica, nonostante la grande mobilitazione dei territori – anche la Regione Sicilia aderì, ndr – nessuno ha voluto ascoltare le nostre proteste». Per la pesca il danno delle trivelle rischia di essere immenso, spiega Forte: «Il Canale di Sicilia è un’oasi da salvaguardare, con una ricca fauna e flora marina che verrebbero altrimenti compromesse e turbate dalle trivelle». Oltre al conseguente impoverimento delle risorse ittiche e biologiche, l’incubo è quello di incidenti come quello accaduto nel golfo del Messico: «Nessuna società petrolifera può escluderli: per il Canale di Sicilia sarebbe un disastro», denuncia, ricordando come, a suo dire, nessun ritorno in termini occupazionali può scaturire dalle attività di perforazione per l’isola. «Senza dimenticare come la Regione sia già costretta a subire il peso delle raffinerie di petrolio, come a Gela, Augusta e altri centri, ormai compromessi». Per i pescatori, la filiera ittica e l’indotto, già travolti dalla crisi economica, quella delle trivelle sarebbe quindi una presenza troppo pesante: «A causa dell’inquinamento sono già diverse le aree nelle quali i pescatori non possono più operare. Se si andrà avanti in questa direzione, per tutto il comporto pesca, così come per il turismo, il danno economico nell’area mediterranea sarà elevato», conclude Forte, denunciando la latitanza delle istituzioni nazionali e comunitarie.