Rachel Dolezal, la bianca che si è finta nera. E se fosse solo una vittima?

L’avrete sentita tutti o quasi la storia di Rachel Dolezal. Trentasette anni, artista, ma soprattutto attivista. Sì perché questa donna spigliata e molto apprezzata, è la numero uno della NAACP, l’associazione più importante a difesa dei diritti della minoranza nera, da sempre volta, fin dall’acronimo (National Association for the Advancement of Colored People), alla crescita culturale, sociale e civile di una comunità intera. E sarebbe bianca, dopo una vita a farsi passare per afroamericana.

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La Dolezal come Caitlyn (Bruce) Jenner? In questo meme molto virale negli Usa Rachel finisce sulla copertina di Ebony, il Vanity Fair dei neri

L’NAACP non è mai stata solo un baluardo difensivo per i neri, ma anche un laboratorio in cui creare nuove alleanze, in cui riflettere sul tessuto interrazziale di un paese, come gli Stati Uniti, che del meltin’pot è stata precursore almeno quanto lo è stato della segregazione. Per intenderci, questa associazione nasce decenni fa anche grazie a un sostegno, finanziario e non solo, della comunità ebraica e non difende solo i neri dai numerosi abusi delle forze dell’ordine – secondo una loro statistica sono ben 500 gli uomini e le donne di colore uccise in scontri con le forze dell’ordine (anche se spesso sono pestaggi o esecuzioni) – ma anche ispanici e altre minoranze. E non c’è nulla di scontato in questo: negli Usa le minoranze si odiano cordialmente, il più delle volte votano all’opposto e si dividono in sottorazzismi che apparirebbero grotteschi se non diventassero pericolosissimi, soprattutto nelle guerre tra bande di periferia.

E non a caso è proprio dell’NAACP la reazione più sobria, intelligente e sensibile allo scandalo Dolezal: tra tanti commenti feroci, prese in giro e polemiche, l’associazione si stringe attorno alla sua leader, ricordando a tutti che “in 106 anni ha potuto vantare, e lo rivendica con orgoglio, un supporto continuo da parte di persone di razze, fedi, credi e colori diversi”. E, lascia intendere, non inizierà a rifiutarlo ora.

NAACP Statement on Rachel DolezalFor 106 years, the National Association for the Advancement of Colored People has…

Posted by NAACP on Venerdì 12 giugno 2015

Ma proviamo ad andare oltre, a capire il caso Rachel Anne Dolezal, non solo a trattarlo come bizzarria della personalità, politica e non, di una donna che sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua vita: la notizia, ancora da verificare, esce nel pieno di una lunga e difficile battaglia legale tra lei e la sua famiglia, con i genitori della stessa che hanno esposto foto di lei bionda e lentigginosa da bambina, certificati di nascita del Montana con tanto di ceralacca e infine, ovviamente nell’intimità che sa dare solo la CNN, i simpatici Lawrence e Ruthanne hanno anche raccontato la loro verità sugli aneddoti che la figlia va raccontando in giro a proposito del suo passato.
Ci sarebbe da dire che con genitori così, è pure normale non essere del tutto equilibrati, ma non entreremo nel privato di una famiglia, proprio come ha dichiarato di non voler fare l’NAACP.

Ma la Dolezal è un interessante spunto di riflessione per comprendere cos’è diventato il nostro mondo. Mitomania, razzismo, paradossali rovesciamenti degli stereotipi razziali, opportunismo, populismi e infine anche maturità della base della minoranza nera si intrecciano all’interno di questo caso che negli ultimi tre giorni è esploso in Nord America tra interviste, rivelazioni, ripicche.

Noi italiani sappiamo bene cosa vuol dire una menzogna di un leader politico. Un ex premier ha sostenuto al telefono con le forze dell’ordine che tale Ruby fosse la nipote di Mubarak (per poi farlo votare ai suoi in Parlamento, in uno dei momenti più bassi della storia della nostra Repubblica), Oscar Giannino, che ambiva a entrare in Parlamento, si è inventato una laurea e persino la partecipazione allo Zecchino d’Oro. Sia chiaro: il caso di questa donna è molto più vicino a quest’ultimo, in cui una sorta di psicotica ricerca dello stupore e dell’ammirazione altrui si unisce a un’identità che ci si sente addosso, nonostante non esista. Giannino è un uomo colto e pieno di buone intuizioni, preparato e capace. Non era laureato, ma questo nulla toglieva alla sua competenza e acume, ma un tarlo nel suo ego lo ha portato a mentire su un titolo di studio di cui nessuno probabilmente gli avrebbe chiesto conto. Rachel è forse bianca, ma ha fatto per i neri, negli ultimi anni (anche portando il tema della segregazione razzista moderna all’Onu con le sue opere d’arte), più di molti altri. Lo si nota soprattutto dai tanti commenti solidali, in cui la si ringrazia “di averci difesi come figli tuoi, anche se non lo eravamo”. E c’è profondo equilibrio anche in chi le rimprovera la “bugia: ti sei laureata in un’ottima università sfruttando le leggi a favore dei neri: aver tolto il posto a uno di noi che poteva averne bisogno, ecco, solo per questo sono arrabbiato con te”. Sono relativamente pochi i violenti, gli estremisti dell’identitarismo che la insultano. Ma sono proprio loro a dirci che questa Michael Jackson al contrario tira fuori una contraddizione potente e poco pubblicizzata. Il razzismo dei ghetti. E sì, perché in questa società moderna, politicamente corretta a parole ma divisa nei fatti, ormai le porte sono chiuse in entrambi i sensi. I bianchi emarginano i neri, i neri “estromettono” i bianchi, li tengono fuori, cercano una vita all black. E così vale per altre minoranze (quella araba su tutti, in Europa lo notiamo nella situazione francese, ormai esplosiva), da diversi anni lontane dal desiderio dell’integrazione, vissuta ora come annessione, imperialismo culturale, ibridazione, perdita di purezza. C’è chi parla sui social “di una vicenda preoccupante: come abbiamo fatto a non accorgercene? Ci stiamo forse bianchizzando?“. E così nella Dolezal troviamo le follie di una società dello spettacolo drogata dallo scontro fra culture. La mitomania nasce dalla prima: devi essere qualcuno e se la tua biografia non ti concede picchi, allora va inventata. Da qui i nove episodi di razzismo del KKK in Idaho denunciati da Rachel (solo ai media, pare non ve ne sia traccia alcuna nella stazione di polizia della sua Coeur d’Alene), ecco la “wrong skin”, ecco infine l’attivismo. Ma nella sua vicenda c’è anche il post 11 settembre – che ha fatto esplodere un malessere già presente fin dalle Pantere nere – in cui le diversità si acuiscono, si inverte la tendenza della globalizzazione intellettuale e culturale (che fino a quel momento era anche un tentativo di conformismo imposto dall’alto, con media e mode), tornano le identità forti e, se necessario, violentemente affermate.

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Sono in tanti a sostenere Rachel Dolezal, nonostante la sua bugia (la bionda nella fotografia sarebbe lei, adolescente)

Ma c’è anche altro. Il tema del “transracial”, per esempio. Perché Caitlyn Jenner diventa un’icona e Rachel Dolezal viene derisa e linciata mediaticamente? Perché il cambiamento di sesso è accolto con favore, almeno in chi sa farne anche un’occasione di visibilità mediatica, e quello di razza no? In uno dei tanti tentativi di parlare con Rachel di questi giorni, in cui lei in difficoltà ha regalato perle come “siamo tutti figli del continente africano” o “non capisco la domanda” a chi le chiedeva se era bianca, la Dolezal a un certo punto ha detto qualcosa di interessante. “Non mi piace il termine afroamericana (niente male per chi aveva sostenuto di avere anche eredità genetiche che andavano dalla Svezia ai paesi Arabi, “di essere in parte ebrea e nativa americana”), preferisco definirmi nera. Sì, io mi sento nera”.

Chi siamo noi per dire il contrario? Sembra a suo agio, Rachel, nei panni che ha vestito per gran parte della sua esistenza, con i suoi capelli, con la sua pelle scura. Così tanto che ha difeso i neri, anche a detta degli avversari che la denigrano (a proposito, per i puristi della grammatica del politically correct, denigrare non è un termine molto razzista?), con impegno ed efficacia. E rischiando molto, in prima persona, esponendosi all’odio altrui.

E allora, cara Rachel, alla fine potresti essere solo una vittima. E’ vero, magari la tua arte si è giovata del tuo colore, così come la tua carriera politica ha avuto una bella spinta dalla tua bugia (con i suoi 300.000 iscritti e gli 11 milioni di dollari di patrimonio e quasi 50 di fatturato l’NCAAP è anche un bel centro di potere economico e non solo politico). Ma rimani una vittima. Di genitori cinici, di una società ottusa, di un’identità, la tua, che non accettava la banalità dell’eredità genetica: nessuno o quasi, infatti, ha voluto raccontare che i tuoi, quando eri adolescente (nel momento di maggior fragilità di un essere umano), hanno adottato quattro figli, di cui due di colore. E di quanto quel momento abbia inciso nella tua sfera emotiva, di quanto l’affetto per quei bambini ti abbia reso diversa e probabilmente migliore Anzi, sai Rachel? Tu sei nera. Come lo sono anche io. Come dovremmo esserlo tutti. Il punto è che tu oggi ci insegni che le quote, razziali o in base al sesso, sono un palliativo alla nostra ignoranza. Che le barriere culturali, legislative, sociali in base alla razza, non hanno alcun senso. Siamo tutti homo sapiens, e basta.
E anzi, a giudicare dalla tua famiglia, c’è solo una divisione da fare al mondo: gli stronzi e le brave persone.

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