Ronald Reagan, il falso mito

07/02/2011 di Andrea Mollica

The Gipper non è mai stato il personaggio reale della fiaba raccontata dalla destra americana

Alle prossime primarie presidenziali repubblicane l’unica cosa certa è  la gara per chi si annuncia come il vero erede di Ronald Reagan. Il quarantesimo presidente degli Stati uniti è l’immarcescibile icona del Gop, l’uomo che ha riscattato il partito di Lincoln riconsegnandolo al conservatorismo che lo contraddistingueva prima del New Deal di Roosevelt. La recentissima ascesa del Tea Party ha palesato ancora una volta quanto sia ancora influente il mantra anti tasse e anti Stato, il marchio di fabbrica dell’ex attore californiano. Ronald Reagan rimane il presidente più amato dall’elettorato di un singolo partito americano, un sentimento che però si basa su alcune mistificazioni che durano ancora oggi, e che affascinano perfino quello che dovrebbe essere il punto di riferimento della galassia liberal americana.

BUON COMPLEANNO, RONNIE – L’anniversario del centesimo anno dalla nascita di The Gipper  ha scatenato la consueta agiografia conservatrice. Al coro, anche se in maniera diversa, si è unito  pure un fan molto particolare, Barack Obama. Time ha dedicato una copertina alla lettura serale dell’attuale presidente, che dopo la bastonata delle midterm si è concentrato sulla nuova biografia del suo predecessore californiano. Le analogie tra Obama e Reagan sono parecchie. Tutte e due sono diventati celebrità a livello nazionale quando non avevano incarichi di prestigio, tenendo discorsi diventati famosissimi alle Convention dei loro partiti. Entrambi hanno vinte elezioni contrassegnate dalla netta impopolarità dell’inquilino precedente della Casa Bianca, così che la loro vittoria è subito diventata il segnale per una svolta politica del Paese.  Reagan simbolo dell’ascesa inarrestabile del conservatorismo seppellito da decenni di New Deal, Obama invece rappresentante dell’anima liberal dei democratici sfrattata dalla Casa Bianca da molti decenni. E anche le loro caratteristiche personali li rendevano materiale poco presidenziabile: un ex attore di destra il primo, un afro-americano di sinistra il secondo, due categorie che raramente vengono associate alla Casa Bianca. E l’analogia più evidente è infine la gravissima recessione che sia Reagan che Obama hanno dovuto combattere appena hanno preso le redini del potere, che ha determinato un’amara sconfitta alle prime elezioni per i rispettivi partiti. Pesante per Ronnie, oscillante tra il disastro e l’incubo per Barack. L’attuale presidente aveva già in passato manifestato ammirazione per l’eroe dei repubblicani, tanto da scontrarsi in modo durissimo con Hillary Clinton in un dibattito delle primarie – prima delle elezioni in South Carolina – proprio sul tema Reagan. Secondo Obama uno dei grandi meriti di Reagan era aver riaffermato la responsabilità del governo, cambiando la traiettoria politica del Paese.

OBAMA SBAGLIA SU REAGAN – Le dichiarazioni dell’attuale presidente seguono la normale pubblicistica statunitense di orientamento moderato o conservatore, che assegnano a Reagan meriti in realtà mai avuti. Le vittorie elettorali conquistate da The Gipper sono state nette e indiscutibili, ma non hanno mai portato a quel profondo cambiamento descritto da Obama, o dai commentatori conservatori del NY Times, del Post o del WSJ. Secondo le analisi del professor Jim Stimson dell’università della North Carolina, che monitora la richiesta di più o meno servizi pubblici dell’opinione pubblica, l’elezione di Reagan spostò  gli americani verso un maggior intervento statale. Una dato che certo contraddice “Nella presente crisi lo Stato non è la risposta, ma il problema” declamato dall’ex governatore della California nel giorno della sua incoronazione. La legislazione che però è stata approvata durante il suo doppio mandato, e durante quella dei suo successori, ha in realtà sposato le richieste degli americani. A partire dagli anni ottanta si è infatti assistito ad un’ulteriore crescita del ruolo dello Stato nella società statunitense, grazie all’approvazione, spesso bipartisan, di programmi di maggior spesa come Cobra, firmato dallo stesso Reagan, che prevede la copertura sanitaria anche per i lavoratori che perdono il lavoro, e di conseguenza l’assicurazione. Allo stesso modo S-Chip, la legislazione per aiutare i disabili, l’estensione di Medicaid e l’indurimento delle normative ambientali hanno ingrossato i compiti dello Stato, in teoria anatema per The Gipper e i suoi fedeli. La contraddizione è però più teorica che pratica, visto che il presidente più vicino a Reagan, Bush figlio, è stato il responsabile della maggiore espansione di Medicare, l’assicurazione pubblica per gli anziani. Un programma denunciato come pericolosa caduta nel socialismo da Reagan negli anni sessanta, e poi diventato cavallo di battaglia del suo partito. Gli anziani (bianchi) votano prevalentemente per il Gop, che ha incentrato l’ultima campagna elettorale contro i tagli a Medicare dei democratici, curiosa posizione per chi si definisce conservatore ed antideficit. Ma l’idolo del Gop ha compiuto atti di eresia conservatrice molto più gravi, senza mai pagare dazio come invece capitato ai suoi successori.

CREATORE DI DEBITO – La presidenza Reagan è stata caratterizzata da uno dei più grandi tagli delle tasse della storia, introdotto nel 1981 col decisivo supporto dei democratici, maggioranza alla Camera. Un fatto incontestabile, che però si è tramutato in un dogma fiabesco per la riva destra della politica statunitense: alzare le imposte è sempre sbagliato. Lo stesso Reagan fu responsabile di tre aumenti di tasse,  che servirono solo parzialmente per contenere uno dei più indelebili lasciti reaganiani, l’esplosione del debito americano. La leggendaria battuta sul debito pubblico “ è abbastanza grande per badare a se stesso” è rimasta negli annali della politica, ma ha simboleggiato l’abbandono del Gop rispetto ai dogmi del conservatorismo economico. I conti pubblici statunitensi non si sono mai ripresi dal vandalismo finanziario reaganiano, che quasi raddoppiò in pochi anni il debito pubblico, portandolo da poco più del 30% a oltre il 50% del Pil durante il suo mandato, e introdusse una bugia  – le riduzione di imposte si pagano da sole grazie all’incremento del Pil – che ancora oggi è una delle cause, anche se non l’unica, della strenua opposizione all’aumento delle tasse nella politica statunitense. Anche per questo ci sono dibattiti surreali sulla riduzione del deficit, che postulano però l’intangibilità dei tagli fiscali di Bush, il primo fattore di squilibrio dei conti pubblici in questo momento. Il grande beneficiario della politica reaganiana sono stati i super ricchi. Quando l’ex governatore della California l’1% della popolazione controllava l’8% della ricchezza nazionale, mentre ora invece la quota è arrivata al 25%, dopo decenni di esplosione della diseguaglianza dei redditi.

DIFESA DEL NEW DEAL GRAZIE A PIU’ TASSE – L’inizio dell’Amministrazione Reagan rappresentò una formidabile partenza della rivoluzione conservatrice. Mostruosi tagli fiscali, aumento delle spese militari, proposta di ridurre in modo molto significativo i programmi governativi, cancellare alcuni ministeri e affrontare il socialismo nascosto della Social Security e il Medicare, i due pilastri della rete di sicurezza sociale statunitense. Solo la prima parte del programma è passato, perché appena il deficit esplose, la recessione si aggravò e il suo partito uscì sconfitto alle midterm, i compromessi con i democratici diventarono indispensabili. Il più clamoroso voltafaccia ideologico si è verificato sulla Social Security, il sistema pensionistico statunitense, il simbolo  del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Reagan, che aveva più volte annunciato una parziale privatizzazione, acconsentì un salvataggio del programma, un vero e proprio bailout, grazie all’incremento dei contributi e delle tasse sui più ricchi. Nel 1982, quando la Social Security stava andando verso l’insolvenza, The Gipper propose una pesantissima riduzione dei suoi benefici, ma il Senato, controllato dai repubblicani, bocciò il piano della Casa Bianca. L’anno dopo l’uomo che voleva ridurre le tasse e abbattere l fardello dello Stato acconsentì ad un’estensione della previdenza pubblica, tramite l’incremento dei contributi, l’arrivo di nuovi partecipanti – i dipendenti federali – al programma e la tassazione dei benefici della Social Security nel modo più di sinistra possibile, ovvero facendo pagare le nuove imposte solo ai redditi più alti. Reagan tradì così la natura dell’anima conservatrice dei repubblicani, che aveva da sempre puntato alla distruzione del sistema pensionistico pubblico. Invece di affossarlo con la privatizzazione, il Gipper si dimostrò pragmatico e lo salvò espandendolo, cementando per sempre l’intangibilità della Social Security. Bush figlio provò  una parziale privatizzazione, ma il progetto non decollò mai vista l’assenza di consenso al Congresso, terrorizzato da un’opinione pubblica largamente contraria. Anche la riduzione dei ministeri rimase lettera morta, e il leader del Gop creò uno dei più costosi dipartimenti dello Stato federale, il ministero che gestisce i programmi per i veterani dell’esercito.

CARTA RAZZIALE – Ronald Reagan ha governato spesso in modo pragmatico, ma ha indubbiamente spostato a destra il baricentro del suo partito. Il Gop, una volta casa ospitale per moderati come Nelson Rockfeller o persino progressisti come Jacob Javits, diventò invece il cartello elettorale per i conservatori statunitensi, anche quelli espulsi dai democratici. A fine anni ’60 Nixon intuì come la rottura tra i democratici e la loro ala segregazionista del Sud avrebbe potuto regalare enormi opportunità per i repubblicani. Il vice di Eisenhower però aveva intuito la pericolosità di una simile deriva del partito di Lincoln e dei radicali che si erano opposti, ai tempi del compromesso del 1876, alla svendita del Sud e al ritorno del razzismo istituzionale. Reagan invece non ha utilizzato neppure la retorica ipocrita del suo predecessore californiano, utilizzando apertamente la carta razziale per riconquistare il Sud ritornato ai democratici grazie a Jimmy Carter. Memore della sua vittoria alle governatoriali del 1966, Reagan era consapevole che giocando sui risentimenti e i sentimenti razzisti della classe media bianca i repubblicani potevano scassare il blocco sociale che aveva regalato  ai democratici il dominio delle istituzioni americane tra gli anni trenta e gli anni settanta. La campagna elettorale del 1980 di Reagan si aprì in Mississippi, uno degli Stati con i più gravi problemi razziali d’America, dove l’allora candidato repubblicano dichiarò il suo appoggio agli States’ Rights, la dottrina dei segregazionisti sudisti che riteneva che Washington non doveva occuparsi della sottomissione dei neri nei loro Stati. Un evidente appello all’elettorato di George Wallace, il governatore dell’Alabama noto per il celeberrimo “Segregazione ora, segregazione per sempre”, lanciato per difendere le università per soli bianchi. Il legame tra l’ex governatore della California e i democratici razzisti diventati repubblicani si era cementato nelle primarie presidenziali del 1976, e con la successiva emarginazione dell’ala moderata all’epoca guidata da Gerald Ford il Gop diventò l’unico cartello elettorale dove i razzisti e gli xenofobi si potevano e si possono ritrovare. Durante il suo mandato presidenziale, oltre alla retorica contro le welfare queen (le donne afro-americane) che vivevano sulle spalle dei bianchi lavoratori, Reagan fu il più strenuo difensore del regime d’apartheid del Sudafrica, sempre più screditato a livello internazione. Molto prima della destra europea the Gipper capì che oltre dispensare ottimismo prendersela con chi aveva una pelle diversa regalava più voti di quelli che faceva perdere. George W Bush, il presidente più vicino a Reagan per ispirazione ideologica, si è comportato in maniera diversa, e le sue posizioni di apertura sull’immigrazione sono uscite nettamente sconfitte.

LA GUERRA FREDDA NON L’HA VINTA RONNIE – La favola più immaginifica è però quella che assegna a the Gipper il merito di aver fatto crollare l’Unione Sovietica. Come già ricordato da Mauro Gilli, giovane e brillante accademico che collabora con Giornalettismo, in un editoriale sui miti della guerra fredda, già lo storico e diplomatico americano George Kennan aveva predetto che le inefficienze strutturali del comunismo avrebbero portato quel sistema all’autodistruzione, determinando il collasso dell’impero sovietico.

L’ URSS è crollata perchè l’economia pianificata aveva creato inefficienze e distorsioni crescenti che bruciavano ricchezza, invece di crearne. Reagan accelerò in parte il processo di decomposizione, costringendo l’URSS ad aumentare le spese militari. Ma questo processo era già iniziato nella seconda metà degli anni settanta e fu reso ancora più drammatico dal processo di globalizzazione dell’economia (dal quale l’Unione Sovietica era allora esclusa, con alti costi in termini di mancate opportunità e mancata innovazione tecnologica). L’URSS sarebbe crollata anche senza la politica di Reagan soprattutto perchè, dopo appena quattro anni – i suoi fan sembrano dimenticare – Reagan abbandonò l’approccio aggressivo in favore di una nuova era di distensione. Una politica di distensione che però non rallentò il processo ormai in corso.

Anche gli americani, all’alba del crollo del muro di Berlino, ritenevano che la fine della guerra fredda dipendesse molto di più dal leader sovietico Gorbatchev rispetto al loro penultimo presidente.Nonostante sia adorato dai neocon, the Gipper non promosse affatto la democrazia, e utilizzò con rara parsimonia la mano militare, inviando meno truppe all’estero di quanto hanno fatto i suoi successori. E la difesa della dittatura di Grenada o i commerci con l’Iran per finanziare la repressione sandinista in Nicaragua mostra ancora una volta il carattere pragmatico e finanche sprezzante dei diritti umani dell’Amministrazione Reagan. E la strenua difesa del razzismo istituzionalizzato sudafricano prima ricordato ne è un altro esempio molto rumoroso.

LA FIABA AL POSTO DEI FATTI – A metà degli anni novanta Reagan era meno popolare di Jimmy Carter. La recessione degli anni novanta, e le politiche restrittive alle quali fu costretto Bush padre a causa del pesante lascito debitorio del suo predecessore, aveva reso la Reaganomics un punto debole dei repubblicani, tanto che Bill Clinton è arrivato alla Casa Bianca proponendosi come un becchino della politica economica reaganiana. Nell’estate del 1992 i sondaggi rilevavano che il peggior presidente della storia recente, Jimmy Carter, era in realtà più apprezzato dell’uomo che l’aveva sfrattato dalla Casa Bianca. Dopo il secondo trionfo clintoniano, uno degli esponenti di maggior peso della rete del Gop, Grover Norquist, lanciò il Ronald Reagan Legacy Project, per rivitalizzare il movimento conservatore dopo l’implosione della rivoluzione repubblicana del 1994. Ronald Reagan diventò allora l’uomo che mai aveva alzato le tasse, un’evidente bugia smentita sia dalla sua esperienza di governatore che da presidente, oppure il vero vincitore della guerra fredda. Una ricostruzione fiabesca del suo doppio mandato che ha reso Reagan il modello ispiratore per ogni candidato repubblicano che vuole arrivare alla Casa Bianca, una figura mitologica con scarsa attinenza alla realtà, un auspicio di ciò che i conservatori vorrebbero essere ma non sono mai stati. Dalla fine degli anni novanta, da quando il ricordo della recessione di inizio anni novanta si è affievolito, l’amore cieco della base repubblicana ha fatto (ri)nascere il mito reaganiano. L’esplosione del debito federale, il crash dei mercati finanziari del 1987,  la scarsa efficacia dei tagli alle tasse, l’ampliamento dello Stato nonostante la propaganda contraria fanno assomigliare Reagan molto più a Bush figlio di quanto i sondaggi di apprezzamento, radicalmente opposti nei due casi, potrebbero far pensare. La vera vittoria di Reagan è stata la costruzione della politica dell’immagine, dove si annuncia una cosa e si compie l’esatto opposto, la retorica separata dai fatti. Un lascito che la politica statunitense paga ancora oggi, rapita da una polarizzazione ideologica che nulla a che fare con la realtà. In conclusione, citiamo una dichiarazione del primo direttore del budget dell’Amministrazione Reagan, David Stockman,  che meglio di tutti chiarisce l’inesistenza della rivoluzione guidata dal Gipper.

La Reagan Revolution è stata solo un discorso per la  Festa di Lincoln. Non è mai esistita nel mondo reale della politica fiscale. Durante gli anni ottanta lo Stato è diventato più grande, e il carico fiscale spostato, non ridotto. La vera eredità della sua politica economia è il debito pubblico triplicato(… ) Quello che è sopravissuto dell’epoca reaganiana è un catechismo religioso contro le tasse che ha lasciato il Paese con due partiti del pasto gratis e nessuna prospettiva di un governo fiscalmente responsabile.

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