Una sola certezza, sul ciglio della strada

Anna Maria. La sua storia è oscura, intricata. Un dedalo tutto da sciogliere, con un solo punto chiaro: la sua morte

Raccontare tutta la storia, dal principio alla fine, allacciando ogni filo e sciogliendo i nodi comparsi sulla corda, è impossibile. Non si può tracciare rette o parabole quando i punti si accavallano fra di loro, quando compiono giri su sé stessi, tornano indietro, si nascondono agli occhi. Raccontare come si sono svolti i fatti, seguendo una narrazione lineare, non è fattibile. In tanti hanno parlato, troppe voci si sono avvicendate, troppe mani hanno posato pezzi di un mosaico oramai indecifrabile. Una sola cosa rimane certa: il corpo di Lei, trovato in una piazzola di sosta della statale 16 bis, là dove la strada disegna una curva leggera e in lontananza si scorge Molfetta. L’unica certezza rimane il corpo di Lei, appena 22enne, abbondato nelle terre di Puglia.

VIA CRUCIS – Fa freddo. Anche qui, al Sud. È la notte fra il 3 e il 4 febbraio 1992. Ed è qui che il corpo di Anna Maria viene ritrovato. Questa l’unica certezza. Un corpo contundente, un masso, un cric, forse una mazza da baseball le ha fracassato la testa. Il forse è d’obbligo. Tutta la storia è costellata di forse. Tutta la storia, d’ora in avanti si ingarbuglia, diventando inestricabile.  Sul posto accorrono i carabinieri della compagnia di Molfetta. A coordinare le indagini, il pm Alessandro Messina. Subito inizia la routine investigativa e subito arrivano le prime risposte alle solite domande: Anna Maria si vedeva con qualcuno? E con chi? Sì, scoprono. Si vedeva con Marino Domenico Bindi, un professore di educazione fisica di 23 anni più grande di lei. Sposato per giunta. Come ovvio, le indagini si concentrano su di lui. Si effettuano perquisizioni, si vaglia il suo alibi. Il pm fa tutto quello che è in suo potere fare, ma la sua ricerca della verità è vana. Il 18 ottobre dello stesso anno, dopo soli otto mesi di indagine, non può fare nulla che archiviare il caso. Non si può lasciare irrisolto l’omicidio di una ragazza di 22 anni. I genitori non si danno pace: chi ha ucciso Anna Maria deve essere trovato. Il loro avvocato, Giuseppe Maralfa, chiede nuove indagini, costringe la procura a riaprire il caso. Siamo al 27 aprile del 1996. Messina non è più in procura, è stato trasferito a Bari, a prendere le redini dell’inchiesta è Domenico Seccia. Anche lui, come il suo predecessore, poco può fare e il 18 settembre del 1997 archivia nuovamente la faccenda. Né i genitori, né l’avvocato sono però disposti a chiudere così la vicenda. Indicando un supertestimone, nel 2000 Maralfa fa riaprire il fascicolo sulla morte di Anna Maria. Seccia rimane in procura ancora per un anno, poi al suo trasferimento, il caso arriva nelle mani del pm Francesco Bertone. E qui tutta la storia cambia, i fili piano piano iniziano a sciogliersi, ma è solo apparenza. Più si va avanti e più sembra di procedere all’indietro, come i gamberi. Bertone tira dritto e scopre quello che finora era stato lasciato sepolto.

POCHE CERTEZZE – Le scarpe sono il primo punto che segna Bertone. A casa del professore di educazione fisica ne sono state ritrovate un paio sporche di terra in seguito alla perquisizione. Forse, ma è uno dei tanti forse, della stessa terra dove è stato ritrovato il corpo di Anna Maria. A raccontare del loro ritrovamento sono in tanti: un brigadiere che quel giorno fece la perquisizione, la moglie di Bindi e lui stesso durante un interrogatorio. Ma la terra è la stessa? Impossibile da sapere: le scarpe non ci sono più. Sparite, puff, volatilizzate. C’è qualcosa che non torna. Tante prove non combaciano. Più Bertone va avanti e più si accorge che le indagini sono state condotte male e che, fatto ancora più strano, molte prove sono state inquinate. Anche alcune intercettazioni sono state manomesse. Qualcosa non quadra, ma il pm ha una certezza: a uccidere Anna Maria è stato Bindi, e ne dispone l’arresto. E, ancora una volta, la scena cambia di nuovo.  Si iniziano a intercettare le utenze dei carabinieri che avevano svolto le indagini, prima di convocarli in Procura per rendere conto delle proprie azioni. Non è un bel sentire. «Uagliò, tu non devi… Tu qua, dobbiamo far apparire che se errore c’ è stato è stato fatto in perfetta buona fede». Così parlava il maresciallo Lovino, comandante della stazione dei carabinieri. Un maresciallo che parla con l’avvocato di Bindi, Iannone, chiedono lumi sul come comportarsi. Carabinieri che si sentono continuamente al telefono e parlano anche con un generale di brigata, Guglielmo Giannattasio. Un generale che avverte: «Il telefono mio mi puzza, senti, questo qua è segreto e non ce l’ha nessuno», «il generale mi ha detto “occhio ai fili”…» dice uno all’altro. Ecco Bertone scopre tutto questo e inizia un processo per favoreggiamento per i militari dell’Arma. Sul banco degli imputati con la stessa accusa rivolta all’ex moglie di Bindi, Emilia Toni, a un loro amico, Onofrio Scardigno, alla moglie di lui, Anna Andriani, e a sua cugina Teresa. Tutti accusati di avere in qualche modo sviate le indagini e aiutato Bindi a farla franca. Ma perché? Questo nessuno lo sa. Come in effetti nessuno sa chi ha ucciso veramente Anna Maria. I giudici in effetti non sono convinti della colpevolezza dell’imputato. Le prove non ci sono, e come potrebbero esserci del resto? Concordano sul fatto che sono state inquinate, che le indagini sono state fatte male, nulla di più. E così è un susseguirsi di assoluzioni che arrivano in Cassazione e qui la beffa: i genitori di Anna Maria Bufi dovranno pagare anche tutte le spese processuali. Se anche i carabinieri dovranno pagare per i loro errori non si sa, il processo va avanti. Intanto Anna Maria, sul ciglio della strada, quella notte fra i 3 e il 4 febbraio rimane l’unica certezza.

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