Ghost in the Shell: la recensione, un live action con troppe “anime”

Ghost in the Shell, tratto dal manga e dall’omonima serie di Anime, arriva al cinema la versione live action con protagonista Scarlett Johansson.

 
Ghost in the Shell diretto da Rupert Sanders arriva nei nostri cinema con il problema principale di presentarsi come tratto da un manga, ma in realtà per la sua totalità è preso direttamente dagli  anime (cartoni animati) realizzati  in Giappone a partire dal 1995. Anime che nel nostro paese sono patrimonio solo di un gruppo di appassionati, mentre la maggior parte del pubblico a malapena ha mai sentito parlare del fumetto e del cartone animato che lo hanno ispirato, il che impedirà loro di comprenderlo sino in fondo.
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Se del fumetto ha poco, ruba però a man bassa da tutta la produzione cinematografia e televisiva prodotta in Giappone nel decennio tra il 1995, uscita del primo film, e il 2005, fine della seconda serie televisiva.
Il risultato seppure nel suo complesso è ottimo, specie sotto l’aspetto visuale grazie agli effetti speciali  ed anche con una Scarlett Johansson  decisamente in parte, crea in realtà una certa confusione che a volte sfocia perfino nella noia per lo spettatore privo di riferimenti. Un pò come vedere un film dell’Uomo Ragno senza aver mai letto il fumetto,  la pellicola risulta alla fine un collage di quanto realizzato attraverso gli anime, con molte citazioni destinate solo gli appassionati della serie
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Se le scene d’azione – il Maggiore che sfonda la finestra, il combattimento corpo a corpo nelle basse acque di un bacino e lo scontro con il ragno robot – sono tratte dal primo lungometraggio omonimo, la parte del laboratorio – con l’autopsia del robot ginoide e la scienziata tabagista con gli occhi asportabili – proviene invece dal secondo film, Innocence, che ha conosciuto una distribuzione italiana anche con il titolo L’Attacco dei Cyborg. Dalla prima puntata della serie TV Stand Alone Complex viene l’aspetto delle geishe robot, come anche il loro utilizzo in un ristorante tradizionale.
Per il personaggio di Kuze è stata presa in considerazione la seconda serie TV, Stand Alone Complex 2nd GIG, dove compare un personaggio omonimo che era probabilmente stato il bambino di cui il Maggiore si era innamorata da piccola, ma a questo è stato aggiunto anche qualche elemento del “Burattinaio”, una forma di vita che nella prima trasposizione animata era nata nel vasto mare delle informazioni e aveva preso consapevolezza di sé. Da questa stessa seconda serie proviene anche una delle scene finali.
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L’ambientazione che si indovina asiatica senza però riuscire a determinare un paese in particolare era già presente nel primo lungometraggio d’animazione, ma lì si potevano notare ancora le conseguenze di un terzo e di un quarto conflitto mondiale, per cui agli alti grattacieli si univano basse catapecchie a formare slum fatiscenti. Le onnipresenti insegne di allora si sono trasformate qui in comunicazioni e messaggi pubblicitari olografici che infieriscono sulla vista con la loro schiacciante seppur impalpabile presenza e sull’udito con i loro insistenti slogan, in un proliferare che li rende ancora più incombenti delle altissime costruzioni. Per ricostruire le scenografie del film d’animazione del 1995, oltre che in Nuova Zelanda si è girato anche a Hong Kong, location scelta già dal regista Mamoru Oshii per cercare un luogo moderno eppure decadente.
Sono quindi molti i debiti che gli sceneggiatori e gli scenografi del film di Rupert Sanders hanno contratto nei confronti dell’animazione giapponese e non sono stati tutti elencati qui o ne sarebbe risultata una lista in fin dei conti inutilmente noiosa. Le parti innovative sono perlopiù quelle che devono spiegare i lineamenti occidentali di una protagonista che sarebbe dovuta essere asiatica, ma in realtà una scelta apprezzata dallo stesso Oshii grande fan dell’attrice americana.
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Si perde inoltre una vera motivazione per lo sviluppo di corpi cibernetici, tecnologie che si erano rese necessarie per aiutare chi era rimasto coinvolto nelle guerre. In questo live action non è ben spiegato, poi, perché siano già in molti a essersi sottoposti a una parziale conversione protesica se il Maggiore è il primo esempio di corpo artificiale completo, il che lascia supporre che i relativi studi ed esperimenti siano ancora agli inizi.
Di positivo ha che rispetto alle versioni precedenti è più lineare e non richiede una seconda visione per comprendere la trama, di negativo è che tratta l’argomento fuori tempo massimo, finendo per essere uno dei tanti film alla Blade Runner. Se il primo lungometraggio del 1995 era troppo in anticipo sui tempi e non tutti potevano comprendere la paura, poi superata, di un’intelligenza artificiale nata dalla moltitudine dei dati pronta a soppiantare l’uomo, quest’ultimo film non ha saputo trovare uno spunto attuale, e se per la serie di cartoni animati possiamo elencare film e serie crediamo che questo rimarrà come uno dei tanti live action che spesso si producono in Giappone, tesi solo ad omaggiare la serie. A questo punto non ci resta che attendere la versione nippo-americana di Akira tratta dal capolavoro di Katsuhiro Ōtomo, anche se l’impressione resta sempre quella di una Hollywood che arriva troppo tardi nel dipingere un futuro fantascientifico, che grazie alle recenti innovazioni tecnologiche, ormai già ci appartiene.
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