Storie Maledette, Franca Leosini è la nostra Truman Capote

22/01/2016 di Boris Sollazzo

Franca Leosini. Non è più solo un nome e un cognome, ma un marchio di qualità, di intrattenimento colto, di cronaca elegante e personalissima, una parola d’ordine per una comunità di adepti che la vedono come una vestale televisiva pronta a raccontarci l’inenarrabile.

Dopo l’intervista a Rudy Guede, il fatto che Storie Maledette sia la trasmissione meglio scritta, costruita, condotta del servizio pubblico e della televisione italiana generalista e non, è sotto gli occhi di tutti. Per la qualità giornalistica della stessa come per la potenza narrativa di una professionista che ha saputo dare una cifra stilistica al racconto della cronaca nera originale e controcorrente, curiosa senza essere morbosa, rigorosa senza essere noiosa. Ecco, se dovessimo tornare indietro nel tempo, ha superato, nello stesso solco, anche il mitico Telefono Giallo di Corrado Augias.


Franca Leosini / Paola Cortellesi di mary_f

Franca ci introduce all’orrore con l’eleganza di una scheda che mischia fatti ed espressioni auliche, definizioni immaginifiche e che hanno la stessa complessa semplicità di un testo di Carmen Consoli, battute e risposte perfette nella loro diversità. E può permettersi tutto, dall’usare espressione “dito birichino” per figurare un petting con tanto di masturbazione della partner, a “Cenerentolo fuori stagione” per raccontare Rudy che dalla Costa d’Avorio finisce in una famiglia bene umbra, passando per un padre che “non c’era mai e aveva un turn-over di donne”, dice “oggettini” invece di preservativi, “la mazzéano” per dire che qualcuno rimprovera il suo interlocutore. Capisci che è in forma quando racconta il primo incontro con l’unico condannato dell’omicidio Kercher. “Si ricorda, Rudy, quando mi raccontò di lei piccolo, a 5 anni, conteso da madre e zia paterna. La tiravano per le braccia e lei guardandomi e raccontandomelo le allargò, come su una croce”. Perché epica e vita, amore e morte, follia e quotidianità si mescolano nella dialettica leosiniana con prosa limpida e forbita, con la stessa audace classicità di quella pettinatura e dei suoi tailleur. Franca ha le #leosiners su twitter, ha ammiratori che arrivano quasi al feticismo come il sottoscritto. Perché va a fondo dell’efferatezza più atroce senza dimenticare la grazia, sa essere empatica senza immedesimarsi, coccola l’assassino o il presunto tale donandogli umanità senza però indietreggiare di fronte alla verità processuale, sempre studiata sul suo librone che sfoglia con vezzosa evidenza, e alle contraddizioni di chi intervista, studiate e colte con quella sua memoria infallibile. “La sua maestra Ivana mi ha raccontato che quando tornava tardi, dopo le 18, suo padre la lasciava fuori casa”, afferma quasi con voluttà, rendendosi conto della potenza di un aneddoto solo apparentemente marginale, un po’ inquirente e un po’ romanziera. Franca Leosini è la nostra Truman Capote: capace di scendere nell’abisso senza spettinarsi, una Gianni Minà che può intervistare per ore chiunque, e fartelo capire davvero. Giornalisti che seguono la verità senza rinunciare a dare un taglio personale, che guardano le storie e le restituiscono secondo le loro sensibilità, che non hanno paura di dire come la pensano. Di mostrartelo, senza nascondersi. Che sia per Gianni il complotto contro Maradona a Usa ’94 o per Franca Guede nel caso Kercher.

Ti tiene attaccato alla poltrona con un confronto serrato, a te e all’interlocutore. Sa creare suspense e attesa, ti destabilizza con le doppie verità della cronaca nera, che gli altri ci restituiscono con banale e ripetitiva bidimensionalità e lei invece vuole rivivere emotivamente e nei fatti. Nelle parole e nelle immagini (chi avrebbe potuto mai potuto mandare in prima serata il sangue di Meredith nella villetta di Perugia senza darti l’impressione di cinismo? Solo lei), nell’inchiesta che non è solo giudiziaria, ma antropologica e sociale.

Franca Leosini è unica. Perché per otto anni Rudy Guede ce l’hanno mostrato come un truce ladruncolo, un ignorante satiro, un negro bastardo che ha turbato la serenità di wasp universitari. E lei ti dà in pasto una trasmissione diesel, in cui l’omicidio come spesso accade con lei, tarda ad arrivare. Con la consapevolezza di chi sa di essere diversa, di cogliere ciò che altri neanche immaginano, ci dice che Rudy è colto, gentile, sereno. Che sa tenerle testa – e per due volte contraddirla e per altre due le dà persino della “vecchia” (sacrilego!) quando osa chiederle se sa cos’è una discoteca e lei con vanità e determinazione dice solo “lo so” e quando dice “come succede tra noi giovani, scatta il good mood” -, che si impone ma sa ascoltarla, perché le sue non sono domande, ma maieutica. E così ci toglie certezze, ci impone di non accontentarci di cronisti pigri, di populismo giornalistico e morbosi opinionisti. Lei va oltre e noi con lei.

Franca, come lei nessuno mai.

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