«Io, travel blogger, vi dico: la paura degli attentati non deve fermarci»
11/06/2017 di Donato De Sena
Come il web ha cambiato le scelte di chi ama viaggiare? Come si comporteranno i turisti in futuro? E cosa accade ai tempi di un elevato allarme per il rischio di attentati terroristici? Lo abbiamo chiesto ad un travel blogger professionista, Andrea Petroni, 40 anni, fondatore nel 2009 di Vologratis.org e autore di ‘Professione Tavel Blogger’ (Dario Flaccovio Editore), un libro che spiega come trasformare in un lavoro la passione per i viaggi.
Andrea Petroni, il tuo libro si chiama ‘Professione Travel blogger’. E allora spiegalo tu. Chi è il travel blogger?
«Il travel blogger è innanzitutto un viaggiatore e un sognatore. Ma non bisogna per forza aver scalato l’Everest a piedi o circumnavigato il globo o aver fatto particolarmente gli avventurosi per diventare tale. Il viaggio può essere qualsiasi esperienza vissuta fuori casa, anche una gita fuori porta o un week end a Londra. Tutto merita di essere raccontato con lo spirito del travel blogger: ognuno può raccontare un luogo a suo modo. Il travel blogger deve poi avere spiccate doti di scrittura, per tradurre le emozioni in parole, conoscere delle tecniche di web marketing per posizionare i suoi articoli. È un viaggiatore-sognatore che mette a disposizione degli altri le proprie esperienze».
Quali consigli bisogna dare a quel sognatore che ama viaggiare e raccontare e pensa di diventare un travel blogger?
«La prima cosa da fare è aprire un blog solo per passione. Molti lo vogliono aprire per guadagnarci, ma sbagliano. Non è certamente come lavorare in miniera, ma si tratta comunque di un’attività faticosa. È un lavoro che porta frutti a lungo termine. Non si può aprire un blog e pensare dopo sei mesi di diventare famoso o guadagnarci. Ci vuole tempo per l’indicizzazione e per crearsi un pubblico. Bisogna poi studiare tanto. Avere una base di fotografia e video. E tanta umiltà. Non bisogna mai mettersi in cattedra e fare i professori. Bisogna avere rispetto verso i lettori».
Quali errori invece non bisogna assolutamente commettere?
«Come dicevo, l’errore è quello di aprire il blog solo per guadagnarci. Ma un altro errore è quello di non dare importanza alla seo. Inizialmente l’algoritmo di Facebook non era penalizzante, bastava scrivere post senza regole seo e condividerlo per fare traffico. Quando è cambiato l’algoritmo è stato necessario cambiare».
La sua professione nasce negli ultimi anni, come tante altre legate al mondo del web. Vi sostituite ai più tradizionali tour operator? I vostri follower si organizzano in proprio o si rivolgono ad agenzie?
«Noi non ci sostituiamo a nessuno. Il nostro e quello dei tour operator sono ambiti diversi, noi non vendiamo nulla. Ci limitiamo solo a dare suggerimenti. Anzi, molti travel blogger e tour operator potrebbero lavorare benissimo insieme. Il travel blogger può dare spunti interessanti e far anche amare un determinato tipo di luogo, mentre il tour operator può intervenire successivamente in fase di vendita. Recentemente sono stato pesantemente criticato per un tutorial in tv a ‘Detto Fatto’. Molti tour operator ci vedono come competitor, ma potremmo essere un supporto».
Lei ha iniziato l’attività di travel blogger nel 2009. La rete e i social come hanno cambiato il viaggiatore e le sue scelte, a partire da quella della meta?
«I social hanno fatto scoprire posti nuovi. In Norvegia ad esempio, sui fiordi, c’è una roccia che fino a qualche anno prima dell’avvento di Instagram, non era conosciuta, poi ha vissuto un boom. Si sono trovati ad avere ogni anno anche 3/400mila visitatori».
E in futuro, invece, come sarà il viaggiatore rispetto ad oggi?
«Siamo pieni di dispositivi tecnologici. Il viaggiatore sarà sempre più connesso. Con città con wi-fi libero i turisti possono condividere in tempo reale quello che stanno visitando. Saremo dunque sempre più connessi e pronti a raccontare subito la nostra esperienza. E questo può generare anche una maggiore attenzione al turista da parte delle strutture».
Il settore del turismo in Italia vive una fase di ripresa, proprio in un momento di ripetuti allarmi legati al terrorismo internazionale. Che idea si è fatto di questa tendenza?
«Mi sono accorto anche in prima persona di questa tendenza. In Sardegna, ad esempio, nella zona di San Teodoro, fino al 2015 avevano subito un calo drastico di presenze per il caro traghetti. Dal 2015 poi c’è stato un aumento vertiginoso. Non solo di italiani, ma anche di francesi e inglesi. I gestori di strutture mi hanno spiegato che la tendenza è legata al fatto che molti che si recavano in paesi come Tunisia, Marocco, Egitto, si sono riversati in Italia. Siamo visti come un paese meno a rischio».
Cosa dice a chi è preoccupato di spostarsi all’estero e pensa di cambiare programma o addirittura di disdire le prenotazioni?
«Sono fatalista. E vivo a Roma, una delle città a rischio attentati. Dico che rischiamo di fare solo il gioco di chi ci vuole spaventare e farci rimanere in casa. Il rischio può essere ovunque. Anche in un pub o ristorante. L’alternativa sarebbe rinchiuderci in casa. Ma bisogna continuare a vivere i nostri sogni, e viaggiare, senza paura».
Chi ha prenotato in Gran Bretagna sarà preoccupato per gli ultimi attentati…
«Io ero a Manchester il giorno dell’attentato sul Tamigi e non ho avuto alcuna paura. Ripeto, può succedere in qualsiasi posto».
Quali sono le mete dell’anno?
«Nell’ultimo anno l’Islanda è in forte crescita. È un posto meraviglioso, ci sono stato un anno e mezzo fa. È un Paese magico e tranquillissimo. È una delle località con un basso livello di criminalità. La consiglio a tutti. Poi è in forte ripresa la Grecia, dopo la crisi. È anche una località economica. Parigi ha avuto invece un grosso calo».
…facile immaginare che accadrà qualcosa di simile in Inghilterra…
«Purtroppo sì».
(Foto da archivio Ansa. Credit: Frank Rumpenhorst / dpa)