Il presidente della Repubblica ricorda il precedente del 1953. “Fece bene al paese”, dice
E’ Giorgio Napolitano a mostrare segni di cedimento, ormai: nel senso che il Capo dello Stato non ce la fa più. Non ce la fa più a vedere il paese impastoiato nella più grande crisi istituzionale di sempre senza alcuna via d’uscita apparente. E allora, dal Quirinale, rompe il proverbiale silenzio dei presidenti e si permette di dare un consiglio che è, vista la prassi del Quirinale, molto, molto più che generico: signori, ricordatevi di Giuseppe Pella.
«C’era bisogno di un governo di tregua quando il Presidente Einaudi diede l’incarico a Giuseppe Pella. E anche se ebbe vita breve, fu un’esperienza importante e utile, che segnò il futuro dell’Italia repubblicana»
Vi prego, dice dunque il capo dello Stato, fermate il treno, deponete le armi e firmate “una tregua”. Una tregua che potrebbe includere, appunto, un governo tecnico a brevissima vita: proprio come lo fu il Governo Pella, primo esperimento di governo non politico della storia della Repubblica. Dobbiamo tornare molto indietro per raccontarne la storia: siamo nel 1953 e la parabola politica di Alcide de Gasperi è giunta ormai al termine: silurato dalla stessa DC che non gli perdona da destra – e dunque dal Vaticano – l’eccessiva distanza dalle destre monarchiche e missine; dalla sinistra interna, l’eccessivo centrismo. Insomma, l’uomo che ha fatto la Repubblica si ritira in Trentino e a breve muore, mentre a raccogliere la sua eredità arriva Giuseppe Pella, chiamato a formare il governo da Luigi Einaudi, presidente della Repubblica che lo ebbe come allievo. Giuseppe Pella, economista come Einaudi, era stato ministro del Tesoro nei precedenti gabinetti De Gasperi; uomo della destra DC rumoriana, ebbe l’incarico di un governo esplicitamente definito come “a termine”, per la sola approvazione della legge di Bilancio.
CHI ERA COSTUI? – Un suo ritratto, dal Corriere della Sera; il cinegiornale che racconta il suo giuramento, dagli archivi della Camera.
Giuseppe Pella era un notabile legato alla tradizione del Partito Popolare quando fu chiamato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi a formare il suo governo «d’ affari». Quello che oggi si chiamerebbe un governo «del presidente», comunque di transizione. Siamo nell’ estate del ‘ 53, è appena naufragata l’ ipotesi della legge maggioritaria (la famosa «legge truffa» che poi tanto truffaldina non era) e De Gasperi ha fatto un passo indietro. E’ cominciato, anche se pochi se ne sono accorti, il declino del centrismo. I due piemontesi, Einaudi e Pella, sono legati da un vincolo profondo di tipo intellettuale. Condividono la stessa dottrina economica. Pella è un uomo ancora giovane: ha 51 anni, essendo nato il 18 aprile (data fatidica…) del 1902. Ma non è inesperto. E’ stato a lungo ministro degasperiano, prima alle Finanze, poi al Tesoro: sempre nel solco liberale di Einaudi.
De Gasperi, con un ultima dichiarazione, accorda una fiducia di comodo a Pella.
De Gasperi – per non lasciare dubbi – si affretta a coniare una definizione che resterà nella memoria: «governo amico». Come dire che la Dc lo vota, ma non lo ama e si prepara a chiudere la parentesi alla prima occasione.
Sarà che Giuseppe Pella interpreta a suo modo il ruolo di capo del governo di Transizione del presidente, visto che rischia di scatenare una crisi internazionale quando spedisce al confine goriziano l’esercito e la marina per rispondere con il volto più duro possibile ai movimenti di Yosif Broz, il maresciallo Tito, che dalla Jugoslavia minaccia la frontiera italiana. A liquidare velocemente l’esperienza di Pella ci pensa l’estrema destra Dc, ovvero Mario Scelba che pur di non scontentare l’alleato anglo-americano si affretta a parlare contro il governo.
“L’ isterismo antinglese e antioccidentale rivela la povertà di una concezione politica e una visione dei problemi che già condusse alla sconfitta».
Nessuno voleva mettersi contro le potenze occidentali che, in quella fase, non avevano alcuna intenzione di mettersi a fare la guerra contro Tito. E così, Pella si dimette: sarà comunque ancora più volte ministro.
Il Presidente del Consiglio Dini nella sua replica annuncia che in ogni caso il Governo non intende dimettersi, perché ciò impedirebbe il prosieguo dell’esame dei disegni di legge finanziaria e di bilancio. Dichiara inoltre che, una volta approvati questi disegni di legge, e quindi non oltre il 31 dicembre, il Governo rimetterà il proprio mandato. Il Presidente Dini chiarisce anche che il suo e’ un Governo tecnico di programma, rispondente ad un disegno di raffreddamento dei contrasti che permetta di ricomporre un quadro politico piu’ stabile.
Dopo il disco verde alla manovra Dini si dimette irrevocabilmente: si apre la stagione del centrosinistra prodiano.
Dopo la caduta del Governo Dini nei primi mesi del 1996, fu incaricato dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro di formare un nuovo Governo: il tentativo di costituzione di un governo tecnico presupponeva un’intesa di fondo tra i due poli. Per superare il nodo delle televisioni Telecom Italia presentò un ambizioso progetto di cablatura delle città italiane che avrebbe permesso la trasmissione via cavo, superando perciò le riserve espresse dalla Corte Costituzionale sulle trasmissioni televisive via etere. Il tentativo di Governo andò però a vuoto per l’opposizione quasi completa degli opposti schieramenti parlamentari e così si giunse allo scioglimento anticipato delle Camere.
Sulle televisioni muore dunque il tentativo Maccanico, che aveva già effettuato tutte le consultazioni con le forze politiche e sociali – dopo aver, come si dice in gergo, accettato con riserva l’incarico del Quirinale. Dalle consultazioni, come ci riporta questa cronologia della Camera, era emerso un programma politico praticamente unanime. E’ emersa la determinazione largamente maggioritaria a perseguire una riforma organica e coerente che partendo da una profonda revisi
one della forma di Stato attraverso la costruzione di un ordinamento di federalismo cooperativo e solidale, investa anche la revisione della forma di Governo e giunga alla fine alla riconsiderazione della riforma delle leggi elettorali politiche…avvicinandole al sistema a doppio turno…”. E’ convinzione quasi generale che “sia indispensabile un’opera di revisione che porti ad un deciso rafforzamento delle istituzioni unitarie di vertice e di governo della nostra Repubblica, nel rispetto della nostra storica tradizione del rapporto di fiducia che lega il Governo al Parlamento”, anche col “conferimento di una posizione di netta preminenza al Presidente del Consiglio in seno al Governo” e l'”investitura popolare diretta del Capo dello Stato” e con “l’innesto, sugli attuali poteri del Presidente della Repubblica, di poteri di governo in tema di politica internazionale e della difesa, coniugandoli con la tradizione del nostro sistema parlamentare, secondo il modello definito semipresidenziale dalla dottrina giuridica e politologica…Riguardo alla procedura, la maggioranza è favorevole alla costituzione di una Commissione bicamerale, formata su base proporzionale, con poteri referenti.”
Ma si sa, quando si toccano le televisioni in Italia si muore: Maccanico non più di quattro giorni dopo la definizione di questo programma rinuncia all’incarico. Il presidente del Consiglio designato lamenta “condizionamenti” da parte dei partiti che, a suo dire, gli avevano inaccettabilmente tirato la giacca pur di costringerlo a “travalicare le sue funzioni istituzionali”. Di conseguenza, Maccanico fece sapere che il clima non era adeguato per un governo al di sopra delle parti. Chissà se quello odierno, invece, lo è.