Antidepressivi: considerazioni sparse di una psichiatra in trincea
04/06/2009 di Donatella Lai
Qualche mito da sfatare e una soluzione da ribadire: non è il farmaco a essere buono o cattivo, ma l’uso che se ne fa
I NUMERI – Questa mia premessa serve a introdurre delle considerazioni relative alla relazione fra uso di antidepressivi e aumentato rischio suicidario. Esistono studi condotti in modo molto serio, si possono anche reperire gli abstract su internet con una ricerca veloce veloce. Per esempio, digitando “antidepressivi suicidio” già le prime voci riportano articoli interessanti, sia di contenuto tecnico che divulgativo, QUI, QUI, QUI e QUI per esempio. Dai link riportati (e ho citato i primi comparsi su google) ho potuto osservare che in rete possiamo trovare gli studi condotti con rigore ma questi sono difficili da decodificare per chi non è abituato al linguaggio tecnico, inoltre proprio quelli che scagionano (se così si può dire) gli antidepressivi sono risultati di ricerche che non vengono divulgati volentieri. L’orientamento generale infatti è quello di demonizzare i farmaci in uso nella psichiatria. Ma in parole povere: gli antidepressivi inducono il suicidio si o no? La risposta è “si e no“. Intanto, en passant, mi pare doveroso ricordare il primo principio che uno studente di medicina impara quando comincia a studiare farmacologia: un farmaco non può fare nulla di ciò che l’organismo stesso non sia in grado di fare, solo che la presenza del farmaco rende molto rapida una reazione che altrimenti potrebbe avere tempi più lunghi della vita stessa del soggetto.
CONDIZIONE DETERMINATA – Tornando al caso specifico, l’antidepressivo è sempre un farmaco delicato e meno maneggevole di quanto solitamente non si pensi. Il guaio con la nostra specialistica è quello che un po’ tutti si sentono in diritto di metterci mano e bocca: provate un po’ a discutere con un cardiologo sull’uso che fa degli antiaritmici e fate voi il paragone con quello che succede invece in campo psichiatrico. Usiamo la parola “depressione” per indicare troppe cose diverse. Negli articoli è citata la cosiddetta “depressione unipolare” in contrapposizione alla ricaduta depressiva del disturbo bipolare (quel disturbo a causa del quale il soggetto alterna periodi depressivi a periodi euforici o comunque di accelerazione), ed è vero che distinguere grossolanamente fra queste due forme è fondamentale ai fini di una corretta terapia. Ma non basta. La valutazione del disturbo va fatta anche su altri parametri, fra cui uno che viene spesso sottovalutato, ossia il temperamento di base dell’individuo, perché è quell’aspetto della personalità di ognuno di noi che ha radici nella genetica e nel nostro modo di reagire anche biologicamente a fattori esterni, compresi i farmaci che ci ficchiamo in corpo. E così persone con un temperamento di base fobico o depressivo rispondono agli antidepressivi secondo le aspettative, mentre chi ha caratteristiche di originalità, i temperamenti artistici o istrionici per esempio, sono coloro che potrebbero avere invece reazioni al farmaco poco piacevoli e non facilmente prevedibili: l’originalità del carattere spesso rispecchia una originalità biologica di base e questepersone potrebbero anche reagire in modo anomalo anche ad altri farmaci, come per esempio gli antiinfiammatori. Il “disturbo” infatti non è un’entità isolata e vagante per l’aria come un virus, ma è una condizione che una determinata persona con delle caratteristiche ben precise si trova ad attraversare in uno specifico arco di tempo, ed è questa persona, nella sua interezza, che va valutata.
BENE E MALE – A parità di TIPO di depressione, a parità di GRAVITA‘ (sempre ammesso che questo sia un elemento realmente confrontabile), a parità di SINTOMI CLINICI, la somministrazione di un farmaco di tipo SSRI (sono quelli più studiati fra gli antidepressivi) può salvare una vita ma metterne a repentaglio un’altra. Ci sono comunque degli accorgimenti che uno psichiatra può mettere in atto per neutralizzare o minimizzare questi rischi, ma qui entrerei in un altro discorso che mi porterebbe fuori tema. Ciò che mi preme ricordare è che, come in tutte le cose della vita, i farmaci non sono intrinsecamente buoni o cattivi, sono degli strumenti che possono essere usati in modo corretto o in modo insensato e, ovviamente, i risultati dipendono da quest’ultimo fattore, non dalle caratteristiche intrinseche del farmaco. In questo senso anche gli studi clinici presentano dei limiti: quanti di essi sono stati fatti tenendo presente questa discriminante? Quanti ne hanno tenuto conto in via indiretta o implicita, all’atto del reclutamento dei volontari? Il mio discorso vuole essere più che altro un invito a non assorbire in modo acritico neppure il più rigoroso articolo scientifico (anch’esso è comunque il risultato di un lavoro condotto da esseri umani), a maggior ragione esorto tutti a fermarsi un attimo di fronte a titoli allarmistici prima di prendere per buone notizie che portano invece solo confusione e disinformazione.
N.B.: sicuramente in questo articolo do’ per scontate informazioni che probabilmente non lo sono affatto. Se così fosse, sono ben lieta di integrare con ulteriori chiarimenti.