«Matteo Renzi è pazzo»
07/03/2014 di Alberto Sofia
Tra i corridoi in Transatlantico c’è chi dice che Matteo Renzi sia già stato sedotto dal potere. Ma che sia meno forte di quanto sembri, costretto a trovare compromessi con la minoranza del Pd, così come avvenuto sulla legge elettorale. Questa la ricostruzione del senatore di Forza Italia Augusto Minzolini, che ha riportato sul Giornale la battaglia interna al Partito democratico, con diverse correnti che tramano contro il neo presidente del Consiglio e segretario del partito. Con tanto di (presunte) «frasi non dette» sul conto di Matteo Renzi. Tra tutte, quelle del suo predecessore a Largo del Nazareno, Pierluigi Bersani. Secondo quanto riportato da Minzolini, non avrebbe nascosto la sua insoddisfazione con alcuni amici: «Renzi è un pazzo», si sarebbe sfogato l’ex leader democratico. Già il suo ritorno in Parlamento, dopo l’ictus che lo aveva colpito e la convalescenza, era stato piccato, durante il voto di fiducia alla Camera per il nuovo esecutivo. Era tornato in aula per «abbracciare Enrico Letta» aveva spiegato, dopo la staffetta controversa a Palazzo Chigi. Ma non solo. Bersani, pur spiegando l’esigenza di dover aiutare il governo Renzi, non aveva dimenticato di “bacchettare” il nuovo governo, criticando di «peccare di umiltà».
AUGUSTO MINZOLINI E LE RICOSTRUZIONE DEL «NON DETTO» SU MATTEO RENZI – Secondo Minzolini le minoranze interne del Pd riescono a influenzare, grazie ai numeri in Parlamento, l’azione dell’esecutivo. Tanto che è stato necessario trovare anche un compromesso sull’Italicum, accettando l’emendamento che ha limitato l’uso della nuova legge elettorale soltanto per la Camera dei deputati: «A scrutinio segreto i miei mi votano contro. Vado sotto e va in crisi il governo», si sarebbe lamentato Renzi con lo stesso Silvio Berlusconi, spiegando la necessità di modificare gli accordi del Nazareno. L’immagine di Renzi ricostruita da Minzolini è quella di un leader già costretto a cedere ai ricatti delle minoranze interne – dai cuperliani ai dalemiani, passano per bersaniani, lettiani e fassiniani -, che conservano un peso non irrilevante in termini di eletti e possono influenzare l’agenda di governo. Ma non solo: rischiano di scatenare clamore le frasi attribuite dall’ex direttore del Tg1 a diversi esponenti del Pd, ostili al segretario. A partire dallo stesso Bersani, che lo avrebbe etichettato come «pazzo»: «Io ho vinto alla grande le primarie, ho vinto le elezioni sia pure di poco. Lui ha vinto solo le primarie e pensa di poter fare la rivoluzione», si sarebbe confessato con alcuni amici, secondo quanto scritto da Minzolini sul Giornale. Non sarebbe stato il solo. Si legge:
«Non parliamo poi di D’Alema che, con l’inconfondibile sarcasmo, comunica a chiunque di aver dato l’addio al Pd renziano: «Io ho un solo partito. Ma è in Europa: il Pse».
Minzolini lo descrive come il «fronte del rancore», spiegando come – al di là delle “simpatie” berlusconiane – Renzi avrebbe contro gran parte delle correnti del partito. Pronte a «rottamare il rottamatore». Basta pensare ai lettiani, che vorrebbero vendicare la fine prematura del passato esecutivo e la staffetta a Palazzo Chigi che ha epurato l’ex premier. Che il clima in casa Pd non sia dei più sereni non è una novità, in un partito che fatica a ritrovare unità. Già durante i voti di fiducia alla Camera e al Senato al nuovo governo Renzi non sono mancati i dirigenti che hanno criticato in modo pesante il nuovo segretario. Tanto che sullo sfondo resta anche l’ombra e il rischio di nuovi tradimenti, considerati i diversi precedenti recenti. Tra tutti, l’impallinamento del padre fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, «pugnalato» dai 101 franchi tiratori durante l’ultima corsa al Quirinale. Per allontanare questi fantasmi Renzi non può che essere costretto a mediare tra le diverse anime, così come fatto sull’Italicum, in modo da evitare “sorprese” sgradite a scrutinio segreto. Considerati gli attriti interni al Pd, già nelle ultime settimane c’era chi paventava il rischio scissione: un’ombra però allontanata una decina di giorni fa da Gianni Cuperlo: «Bisogna sostenere il nuovo premier con lealtà, per il bene dell’Italia e degli italiani», spiegò. Eppure, di fronte ai malumori di civatiani, Fassina, lettiani, aggiunse: «Indubbio che si sia prodotta una ferita nel partito». Dove porterà? C’è chi è già pronto, dentro il Pd, a sollevare il tema del doppio incarico. Tanto da chiedere a Renzi di rinunciare alla segreteria. Lo stesso Cuperlo aveva indicato la questione come un’anomalia. In pratica, per Renzi il “nemico” principale sembra essere ancora in casa. Pronto a sfruttare ogni possibile passo falso del nuovo presidente del Consiglio.
MINZOLINI E LE SOLUZIONI DI RENZI – Secondo quanto scritto da Minzolini sul Giornale, oltre a cercare il compromesso sull’agenda politica, Renzi ha tentato di unire il partito distribuendo incarichi – posti da ministro, vice-ministro e sottosegretario – a tutte le correnti durante la formazione dell’esecutivo. Si legge:
«E Renzi? Il rottamatore, per pacificare gli animi, usa gli stessi mezzi dei suoi predecessori: ha adottato il manuale Cencelli delle correnti del Pd per scegliere i ministri; lusinga Bersani con la presidenza del partito e D’Alema con un posto in Europa. E, ovviamente, promette alla «palude» che si andrà a votare alle calende greche: «Non si voterà prima del 2025 – ironizza un renziano acquisito come Nicola Latorre -. Il giovanotto è più paraculo del Cavaliere». Magari questo è da vedere, sicuramente somiglia sempre più ad un premier qualunque.
Per Minzolini, però, non è detto che possa bastare:
Basterà? Il Matteo nazionale deve farsi bene i conti: arrivare a patti con «il fronte del rancore», non significa che si sopisca il rancore; e se per far questo deve venir meno alla parola data, potrebbe allungarsi l’elenco dei potenziali nemici. Gli annali di Palazzo Chigi sono pieni di premier «rottamati», nel tentativo di restare attaccati alla poltrona. Enrico Letta docet.