Cannes 2015, intervista a Paolo Sorrentino. “Youth è la mia nuova opera prima”
20/05/2015 di Boris Sollazzo
E’ il solito Paolo Sorrentino quello che incontriamo sulla terrazza del Marriott di Cannes, con tutta la cittadina a portata di sguardo e con tutte le emozioni del suo bellissimo Youth ancora addosso. E con qualche francese (come 20minutes) che già profetizza per lui la Palma d’Oro (di sicuro è quella di Giornalettismo, finora, insieme a The Lobster di Yorgos Lanthimos). Si diverte a scherzare con (e i) giornalisti nella miniconferenza stampa, ma ha qualche dolcezza inconsueta. “La mia biografia non interessa a nessuno, se non a me, però è vero che è un film molto personale, uno di quelli che sento più vicini”. O quando confessa “a volte guardavo questi attori straordinari e dovevo dire loro solamente “bravi”. Quasi mi vergogno di aver guadagnato con questo film!”. Di certo non si vergognerà dei 17 minuti di applausi che gli ha tributato il pubblico nella proiezione serale.
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La vecchiaia è sempre più un’ossessione del suo cinema? Ne ha paura?
Della vecchiaia e della morte. Ho la fortuna di fare un lavoro per cui posso dedicarmi a un’ossessione per un anno o due e lavorarle ai fianchi finché non la esorcizzo. L’ho fatto per due anni, ma in verità qui parliamo di futuro, di quanto magari possa essere meno affascinante di ciò che è venuto prima.
“La leggerezza è una tentazione irresistibile” dice il suo Fred Ballinger. E’ d’accordo con lui?
Il mio obiettivo è diventare leggero, non lo sono. Io appartengo alle degenerazioni della leggerezza, come la goliardia, la fatuità, la frivolezza. Ma è la prima, a quella condizione di sospensione, a cui bisogna tendere.
Dopo un lungometraggio così complesso come La Grande Bellezza, un film piccolo. Nonostante le grandi star, infatti, Youth è più semplice, immediato, intimo. Nasce da un’esigenza sua o è pura casualità?
Ero stanco, non avevo voglia di rimettere in moto un meccanismo così complesso come quello della Grande Bellezza, volevo un film più semplice, più immediato, è vero. E anche se Youth l’ho scritto ad agosto 2013, prima che l’Oscar fosse solo immaginabile, ero già molto felice dei riconoscimenti ricevuti, soprattutto dal pubblico. Ero soddisfatto del risultato. Volevo andare altrove, anche perché c’è da dire, poi, che molti dei miei film precedenti erano stati in qualche modo preparatori alla Grande Bellezza e quindi mi faceva piacere fare una nuova opera prima.
Ha detto che senza Michael Caine, non avrebbe mai fatto Youth. E’ vero?
Michael Caine è semplicemente insostituibile: per la mia conoscenza di attori di quell’età, so che per quanto esistano tantissimi interpreti anziani bravissimi, quell’immediato carisma ce l’ha solo lui. E’ subito credibile come direttore d’orchestra di musica classica moderna, non credo avrei potuto trovare facilmente un altro così. E poi abbiamo gli stessi interessi: il calcio, il giardinaggio, i ristoranti, il cinema, la musica, ha uno splendido senso dell’umorismo, quella con lui è stata un’esperienza irripetibile anche sotto il profilo umano.
E’ stato un privilegio lavorare con lui, unico. Si è creata un’intesa speciale.
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Il suo omaggio a Diego Armando Maradona è affettuoso e iconoclasta. Vista la sua ammirazione per lui, quanto è stato difficile?
Non credo di essere stato iconoclasta, ma solo affettuoso. L’ho messo in questo albergo, perché lui anche in attività spesso andava in strutture simili (in particolare a Merano, da Henri Chenot -ndr). Anzi, visto il mio amore sconfinato per Diego Armando Maradona (interpretato da un mimetico Roly Serrano – ndr), credo di essermi addentrato in un terreno pericolosissimo, quello del poetico. Truffaut diceva che al cinema non si può frequentare la poesia, pena rovinosi capitomboli. Ma io ho rischiato lo stesso e quando lo faccio palleggiare con la pallina da tennis cerco, forse maldestramente, di raccontare la poesia di Diego. Per me l’arte sta dappertutto. Nella musica come nel calcio.
“Le emozioni sono sopravvalutate”. E’ Paolo Sorrentino a parlare per bocca di Michael Caine nel film?
No, è così per Fred Ballinger, non per me. Non sempre le opinioni dei miei personaggi corrispondono alle mie. Consentitemi anche un po’ di drammaturgia. Anzi, io cerco sempre di fare film d’amore, ma avendo per questo sentimento un grande pudore, lo sublimo con legami altri, come l’amicizia, il rapporto tra padre e figlia o tra il regista e la sua attrice feticcio.
Nanni Moretti, in Mia Madre, fa dire a Margherita Buy, che interpreta una cineasta, che “il regista è solo uno stronzo a cui fate fare quello che gli pare”. Lei a Harvey Keitel, in una scena, fa ridimensionare in maniera sferzante la figura di chi sta dietro la macchina da presa. Come si spiega che due registi tanto diversi e di due generazioni differenti, girino scene così simili e che riflettono profondamente sul vostro ruolo e non in maniera molto benevola?
Credo che nasca semplicemente dal fatto che abbiamo in comune una buona dose di autoironia. O almeno sono sicuro che lui l’abbia. Io spero solo di averla.
E ora è la volta della serie Young Pope. Una bella sfida.
Non ne posso parlare, pena la defenestrazione da parte degli americani (la serie è coprodotta da HBO). Avrei tante cose da dire, ma da buon provinciale li temo e quindi mantengo il più serrato riserbo in proposito.
Posso solo dire che non ho ancora fatto la prova costumi a Jude Law.