Ecco come saranno le pensioni delle nuove generazioni
21/05/2015 di Redazione
Una buona pensione? Per i giovani sarà quasi una chimera. Meglio dimenticare in fretta gli importi e gli assegni goduti dai genitori e da chi poteva ancora beneficiare del sistema di calcolo retributivo, ben più “generoso”. Per chi ha cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995,il calcolo sarà effettuato in base ai contributi versati in tutta la vita la lavorativa. Tradotto, avvicinarsi alle cifre incassate in passato sarà utopico. Per poter beneficiare di un trattamento quantomeno “dignitoso” servirà lavorare fino a tarda età, in modo costante e godere di retribuzioni alte, come ha precisato il Corriere della Sera in un articolo di Enrico Marro.
PENSIONI: ECCO COME SARANNO QUELLE DEI GIOVANI –
Peccato che i requisiti richiesti siano a dir poco complicati da ottenere per le nuove generazioni. Il motivo? Non è un segreto che oggi si entri nel mondo del lavoro in ritardo rispetto al passato. Ma non solo: riuscire a trovare un’occupazione stabile è spesso un’impresa. Anche perché flessibilità e precarietà comportano un cambio continuo di occupazione. Senza dimenticare, spiega il Corsera, come non ci sia più il “salvagente” dell’integrazione al minimo offerta dallo Stato.
Se in passato veniva comunque assicurato un assegno minimo di 500 euro a chi non era in grado di raggiungere nemmeno questa soglia (un “aiuto” sfruttato da 3,6 milioni di pensionati su 16,4 milioni) con i contributi versati, per le nuove generazioni cambia tutto. Come spiega il Corsera qualche vantaggio lo avrà chi avrà una carriera lunga e continuativa:
«Secondo le simulazioni della Ragioneria generale dello Stato, un lavoratore dipendente che andrà in pensione nel 2050 potrà prendere anche una pensione netta pari all’83,1% dell’ultima retribuzione netta (tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra primo assegno pensionistico e ultimo reddito, ndr)»
Ma quali saranno i requisiti necessari? Quarant’anni di lavoro e l’aver raggiunto il 70esimo anno d’età. Ovvero, l’età stimata con la quale si dovrebbe poter accedere nel 2050 alla pensione di vecchiaia. Questo perché se oggi si può ottenere lo stesso trattamento con 66,3 anni, questo requisito sarà adeguato periodicamente all’attesa di vita. Spiega il quotidiano:
«Vero che per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996, la riforma Fornero ha introdotto la possibilità di andare in pensione fino a tre anni prima, ma lo si potrà fare solo avendo maturato un importo pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale (oggi significherebbe più di 1.256 euro lordi), altrimenti si dovrà arrivare fino a 70 anni.
In base alle stime della Ragioneria, un giovane italiano potrebbe quindi lasciare il lavoro a 67 anni avendone alle spalle 37 di contributi. E riuscendo a incassare una pensione che raggiunge la quota del 71,5% dell’ultimo stipendio netto.
Sempre nello stesso anno c’è anche la possibilità per un giovane di lasciare prima dei 67 anni se ha lavorato per 46 almeno. Se ha iniziato a 19 anni, riuscirebbe a smettere di lavorare a 65 anni incassando l’82% netto della pensione stessa.
Certo, sottolinea il Corriere della Sera, si tratta di proiezioni elaborate prevedendo un aumento medio e annuo del Pil reale (al netto dell’inflazione) dell’1.5%, con un’inflazione pari al 2% e con una crescita dei compensi reali dell’1,5%. Peccato che questi requisiti sembrino un po’ troppo ottimistici analizzando il trend dell’economia del nostro Paese negli ultimi 15 anni.
LE STIME SULLE PENSIONI CON CRESCITA BASSA DEL PIL MEDIO REALE – Molto cambia, in negativo, se si ipotizza lo scenario di un Pil medio dello 0,5%. In questo caso si prevede un un calo di circa 10 punti del tasso di sostituzione:
«Stime condotte da altri istituti di ricerca giungono a conclusioni ancora più pessimistiche, con tassi di sostituzione che scendono fino al 40% dell’ultima retribuzione, scontando anche alcuni anni di buco contributivo a causa di licenziamenti e cambi di lavoro, ritenuti più probabili per le nuove generazioni. Va infine aggiunto che tutte le simulazioni prevedono tassi di sostituzione più bassi di 5-10 punti per i lavoratori autonomi, poiché questi versano un’aliquota contributiva inferiore (il 22% contro il 33% del lavoro dipendente).
Era chiaro nel 1995, con la riforma Dini e l’inserimento del calcolo contributivo, che i giovani avrebbero incassato a parità di anni di contributi cifre molto più basse rispetto a quelle dei propri padri e madri. Si spiegò come i giovani avrebbero potuto recuperare quanto perso con la previdenza integrativa. Peccato che permettersela è tutt’altro che semplice: soltanto chi ha un lavoro stabile e una retribuzione non bassa, oltre a dover destinare ai fondi anche il Tfr. Tradotto, dover anche dimenticare la liquidazione che i loro padri prendevano quando terminavano di lavorare. Scrive Enrico Marro:
«Con le riforme successive alla Dini e l’aumento dell’età di pensionamento i tassi di sostituzione teorici sono saliti. Ma affinché si traducano in realtà non basterà lavorare di più, se l’economia non crescerà e la precarietà non diminuirà»