Eternit: «Io sarò il prossimo morto. Mia moglie e mia figlia piangono di nascosto»
21/11/2014 di Redazione
Un nome, titoli di giornali, indignazione di rimando, ma è difficile poter comprendere da fuori cosa sia la faccenda Eternit per chi vive a Casale Monferrato. Ci vive, ma soprattutto ci muore. E’ Giuseppe Manfredi dalle pagine de La Stampa che cerca di farci capire cosa significhi convivere con una condanna a morte. Che a quanto pare non è colpa di nessuno.
LA MORTE CAMMINA – A Casale Monferrato la morte per amianto è democratica: non colpisce solo gli operai, ma anche i cittadini, le mogli che pulivano gli abiti da lavoro, chi era sottoposto alla polvere bianca che a volte arrivava incanalata dalle case, e sembrava neve, ma non lo era. Giuseppe, ad esempio, in fabbrica non ci lavorava, ma – appunto – “tanto è uguale”.
LA GENTILEZZA – E racconta della scoperta della malattia, della gentilezza di tutti, in paese: infermieri, medici, lo trattavano con i guanti bianchi. Perché aveva il mesotelioma pleurico, la malattia dell’Eternit, quella che nei racconti di tutti i malati diventa il mostro che non ti fa dormire, e “per fortuna esistono i tranquillanti e fanno effetto”, dicono, perché è la notte il momento più duro. Quando sei solo, e ci pensi.
LA RABBIA, LE LACRIME – Una rabbia, la sua, composta ma inesorabile
«Mi sono avvicinato al procuratore generale e gli ho detto queste parole: “Non so quanto mi rimarrà da vivere, ma le auguro di soffrire quello che sto patendo io. Mi vergogno di essere un italiano. Perché difendete un personaggio squallido come Schmidheiny, venuto in Italia per fare soldi sulla pelle della gente?”». E il procuratore, cosa ha risposto? «Èrimasto immobile, la faccia contratta. I carabinieri mi hanno allontanato, ma uno di loro ha sussurrato: “Ha ragione. Anche io la penso come lei…”.
Ma la rabbia non basta a tentare di descrivere cosa debba essere una vita così, con un macigno in corpo, in un paese in cui l’incubo non è finito, e durerà fino al 2020. Quando si attende il picco dei morti, visto che il mostro – la malattia – può dormire anche per 20 anni, prima di uscire a prendersi la vita. Non basta la rabbia perché forse l’angoscia è peggio. Ed è una frase, una sola frase della storia di Giuseppe che forse, un pochino, per quello che si può capire una cosa così, lo fa capire.
E sua moglie? «Lei e mia figlia piangono quando non ci sono e sorridono appena rientro in casa».