Ettore Scola, c’eravamo tanto amati. Ora, dalla terrazza, continua a ridere di noi
20/01/2016 di Boris Sollazzo
Lo schermo bianco, l’incapacità di scrivere di Ettore Scola. Non perché non sia stato un grande regista e forse ancor più un grande scrittore di cinema. Non perché le sue opere più belle non siano state così potenti da lasciarci addosso persino i titoli come modi di dire: C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi e La terrazza, che per raccontare una certa sinistra è diventato un luogo cinematografico (vedi La grande bellezza), dello spirito e dell’indolenza di chi pensa di poter cambiare il mondo con une flûte di champagne in mano.
Che fatica scrivere. Perché leggere queste righe ti farebbe sorridere con quel disincanto elegante e velato dal sentimentale cinismo dei tuoi capolavori. Cinismo che in realtà era lucidità ironica, capacità sconcertante di spogliare da ogni ipocrisia qualsiasi sovrastruttura, di colpire e affondare, con un’inquadratura o una parola, lo spettatore e l’interlocutore. Eri un genio, mio caro Ettore Scola, proprio per la consapevolezza che non fosse il talento o l’abilità di narratore, pur strabiliante, la tua miglior dote, ma proprio quegli occhi e quegli occhiali attraverso cui guardavi il mondo.
Diresti, a tutti, di non piangere, di non dispiacerci. Che ti eri rotto di non essere in forma, che era arrivato il tuo tempo. Avevi smesso di fare cinema, in fondo, per lo stesso motivo, senza dare la colpa a nessuno, al mondo che non ti capiva o ai produttori ignoranti. No, semplicemente, dicevi, era passato il tuo tempo, non ne avevi più. Poi componi la tua lettera d’amore per l’amico e sodale Fellini, Che strano chiamarsi Federico, e capiamo tutti che come un pugile avevi voluto ritirarti imbattuto, ma eccome se ne avevi ancora.
Quanto è difficile lasciare qualche riga su di te. Sentire nella testa le frasi più belle dei film che hai sceneggiato e diretto, avendo avuto il privilegio di intervistarti, di conoscerti, di ascoltarti. E sì, anche di farsi prendere in giro da quel sarcasmo che non risparmiava nessuno e che non di rado si poggiava impietoso su quella tua generazione che ha perso (e voluto perdere), che non aveva capito la modernità e ne era uscita sconfitta, di cui voi eravate la parte migliore, ma, forse, anche l’avanguardia abbandonata (gli anni ’80 vi hanno risucchiato nelle loro sabbie mobili, lentamente e inesorabilmente, tutti). E non risparmiavi neanche te stesso dai tuoi strali, perché quella regia pulita e dritta, quella scrittura brillante e mai eccessiva, non sarebbero state altrettanto potenti senza quella tua disarmante onestà intellettuale. E non a caso il pubblico lo ha premiato, spessissimo.
Eri nato per disegnare e scrivere. La regia l’hai imparata al Marc’Aurelio, foglio di satira geniale e irriverente, che ti ha cresciuto. La penna, comunque la usassi, era la tua piuma e la tua spada. E la macchina da presa l’hai usata così, non come un’appendice del tuo ego, della tua voglia di mostrare le tue visioni, ma piuttosto una lente attraverso cui farci vedere un mondo che già allora non ti piaceva.
I cinque episodi de La terrazza sono uno schiaffo a chi guardava, commentava, apprezzava i suoi film. A chi spesso, probabilmente, veniva a stringergli la mano. A chi magari decideva anche di finanziarli e che in seguito ha smesso di farlo. Tanto che i soliti critici si sentirono chiamati in causa e rimasero in silenzio, a scriverne arrivarono Scalfari e Bocca, tra gli altri. C’eravamo tanto amati è un affresco che la vera meglio gioventù ce l’ha sbattuta in faccia, che ha denunciato padri e figli – storici, cinematografici, morali -in tutte le loro grandezze e miserie, e non a caso finisce senza consolazioni. E quel cast, quei dialoghi, quel mix di generi rimangono una lezione di cinema clamorosa, unica, perché fa della semplicità la cifra stilistica per entrare nella complessità dei 30 anni di storia italiana più “impossibili” da portare in scena. E La famiglia? Cos’è se non l’unione di quei due gioielli, i tre protagonisti che si riuniscono nel solo Carlo, di cui percorriamo la vita, perché nel frattempo sono passati anni e ideali, e va raccontato un nucleo privato, un uomo, borghesi che se ne stanno nella loro casa di Prati. Di decennio in decennio ci ritroviamo di fronte all’Italia, senza poterci nascondere.
E Una giornata particolare. Forse il capolavoro di Ettore Scola. Solo lui poteva raccontare l’orrore sordo del fascismo senza enfasi, ma mostrandoci il buio della ragione nella quotidianità. La propaganda della visita di Hitler “rifiutata” chiudendosi in casa (degli ebrei in fondo avevan parlato già in tanti, ma di omosessuali e donne no), guarda un po’, con due attori, il suo Marcello Mastroianni e Sofia Loren, che così bravi non erano mai stati e non lo sarebbero stati più. Ma è impossibile tenere insieme tutto: da quando facevi prima il “negro” (così si chiamavano i non accreditati delle sceneggiature, solitamente coloro che le scrivevano in gran parte lavorando per i grandi nomi) e poi con le collaborazioni con Age e Scarpelli, vedi Un americano a Roma, fino ai film da regista, a Concorrenza Sleale, per esempio, che è ingiustamente dimenticato da molti ma che come al solito, pescando nel passato, seppe dirci in anticipo molto di quello che eravamo, siamo, e saremmo stati. Ricordo quanto ho riso della ferocia con cui dipingevi l’ignoranza del popolo italiano in quel cult che fu Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, così come è impossibile non ammirare Brutti, sporchi e cattivi, film così pasoliniano e allo stesso tempo scoliano che PPP avrebbe dovuto filmarne la prefazione, ma lo ammazzarono prima. Scola non è stato mai uguale a se stesso, se non forse nella voglia di sbugiardare i compagni da salotto, i benpensanti benestanti.
Era il cineasta degli attori: forse, pur facendoci buoni film, solo Troisi non riuscì a domare. Ma Sordi, Manfredi, Mastroianni, Castellitto. E Stefania Sandrelli e Sofia Loren. E tanti, tanti altri, che… come con lui mai più. Sapeva valorizzarli, con generosità. Perché era generoso Ettore, come l’eroe di cui portava il nome. Non gli interessava vincere le battaglie, ma combatterle. E non voleva gli onori, ma non temeva i nemici. Quelle battute sferzanti ed elegantissime, non glieli hanno certi fatti mancare.
Era generoso, miracolo vero, anche con i colleghi. Per questo voglio ricordare quell’intervista che feci per il dvd di Diaz, per gli extra. Altro che cinico, Volesti lasciare testimonianza di quanto e come il film di Daniele Vicari ti avesse colpito. Di quanto fosse importante. Essere testimone e sostegno per un’operazione che nessuno aveva più il coraggio di fare da decenni, nel cinema e non solo. Lo facesti in un pomeriggio di agosto. A casa tua. Io sotto il sole, tu all’ombra. Perché ti piaceva giocare e un po’ far soffrire chi rubava il tuo tempo alla deliziosa Gigliola (che ci salvò, a me e all’operatore, con bibite fresche e preziose), a Silvia e Paola, figlie, collaboratrici, orgogli.
Ettore, mi hai sempre preso in giro quando alla Casa del Cinema, con rispetto e ammirazione, provavo a chiamarti maestro. Quando Felice Laudadio rendeva onore alla generazione di cui tu eri il fratello minore, anagraficamente. Lo facesti anche in seguito, a ogni incontro e a ogni intervista. Dissacravi quella parola, perché in fondo come Arbasino prima e Berselli poi, sapevi che tra brillanti promesse, soliti stronzi e venerati maestri passava davvero un filo sottilissimo a separarli. E tu li avevi raccontati, soprattutto i primi che son diventati secondi convinti di essere i terzi.
E allora, arrivederci maestro. Tanto non puoi più rispondermi. E pochi si meritavano quelle sei lettere come te. Arrivederci e a presto, MAESTRO, non ridere troppo di noi da quella terrazza.
Ti abbiamo tanto amato, sappilo.