EXPO 2015, la diversità messa in pericolo dal TTIP. Tutti ne parlano, nessuno sa cosa sarà davvero
30/05/2015 di Dario Bevilacqua
In questi giorni si parla molto di EXPO e del tema centrale dell’esposizione, ossia il cibo e la nutrizione.
Una delle parole chiave, che si confà perfettamente all’idea fondamentale dell’Esposizione Universale, è “diversità”. A Expo è rappresentato il mondo e ogni parte del mondo, ogni Paese, regione, istituzione ha modo di mettere in mostra le proprie peculiarità, le proprie specificità e caratteristiche uniche e irriproducibili.
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Ciò è tanto più vero quando si parla di cibo: la pizza è diversa dal pollo Tandoori; gli spaghetti si distinguono dalla Paella; il Gorgonzola è ben diverso dall’Edam o dall’Emmenthal. Gli esempi potrebbero essere milioni. E ciò non fa che confermare l’importanza della varietà alimentare, delle materie prime (e quindi delle numerose specie di frutti, ortaggi, tuberi, ecc.), dei prodotti elaborati, ma anche delle ricette e delle tradizioni.
Eppure, ancorché a EXPO si celebrino le diversità e le virtù delle varietà alimentari, oggi queste sono messe costantemente in pericolo, ancora di più se dovesse essere approvato il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).
Molti hanno sentito parlare del TTIP: un trattato commerciale tra Stati Uniti e Unione europea, che comprende, tra le altre cose, anche i beni alimentari e che mira a facilitare il movimento di beni, servizi e capitali tra le due sponde dell’Atlantico. Del Trattato si sa poco, anche perché le negoziazioni sono tenute in segreto. Questo è già un primo problema, giacché priva i cittadini di comprendere le posizioni in campo, gli interessi in gioco e il percorso decisionale che potrebbe portare a una decisione finale che condizionerà le vite di milioni di persone.
Al di là degli aspetti procedurali e delle modalità di approvazione, in cosa consiste il Trattato? Non essendo pubblico, non possiamo dire molto del suo contenuto, ma se si tratta di un accordo commerciale di libero scambio, non è difficile immaginare i suoi meccanismi di funzionamento. Il Trattato in questione serve a standardizzare e armonizzare le norme sugli scambi dei prodotti (e dei servizi, o sui movimenti di capitali). Se le imprese intendono commerciare, senza ostacoli e senza correzioni da parte dei poteri pubblici, sulle due sponde dell’oceano Atlantico, queste dovranno essere sottoposte alle stesse regole: gli stessi standard di sicurezza o qualità, le medesime norme per l’impacchettatura e gli imballaggi, i medesimi limiti nella gestione di scarichi o rifiuti, ecc.
Facciamo un esempio, relativo all’alimentare. Se un allevatore statunitense che utilizza ormoni della crescita per i suoi capi bovini vuole esportare la sua carne in Europa, bisognerà che la disciplina che ammette la somministrazione di ormoni ai bovini sia valida e approvata anche nel “Vecchio continente” e che in tale territorio non vi siano divieti in tal senso. L’esempio non è casuale e riguarda una vecchia disputa decisa dalla WTO, per la quale l’Ue ha pagato una multa considerevole, dato che in Europa gli ormoni sono vietati, ma le Istituzioni di Bruxelles non sono riusciti a dimostrare scientificamente la pericolosità degli ormoni in questione. L’esempio però è utile a capire come funzionano certi trattati internazionali: qui abbiamo due regimi di regolazione diversi, uno che vieta gli ormoni, l’altro che li ammette; abbiamo poi un regime commerciale unico, con produttori che possono commerciare su un mercato sostanzialmente mondiale (è uno degli aspetti centrali di quello che chiamiamo “globalizzazione”, ossia l’apertura dei mercati); abbiamo poi norme comuni, contenute in un trattato internazionale e standard alimentari comuni (che sono stabiliti dalla Codex Alimentarius Commission, un’organizzazione internazionale dove i delegati dei Paesi membri discutono e approvano standard tecnici, validi per tutti), che nel caso di specie condannano l’Ue perché prevedono un onere della prova a carico di chi tutela la salute e che deve essere basato su una dimostrazione scientifica del rischio. Ecco quindi che i trattati prevedono disposizioni comuni. Queste sono vigilate da un organo che dirime eventuali controversie tra gli Stati. In caso di condanna questi dovranno scontare una pena (di natura finanziaria).
Ebbene, come dimostra l’esempio citato, le norme comuni – seppur necessarie in tempi di globalizzazione – sono nemiche della diversità. O meglio: alcune norme comuni lo sono. Il problema è: quanto dettagliati e specifici possono essere gli standard comuni che armonizzano le regolazione del settore alimentare? E quale orientamento renderanno comune? Quello statunitense, più orientato al mercato e alla libera iniziativa economica, o quello europeo, più attento ai diritti e alla tutela della salute e dell’ambiente?
Questi interrogativi riguardano anche il TTIP: in caso di accordo, un accordo che andrebbe oltre le attuali regole della WTO, avvicinando ulteriormente il mercato europeo e quello Nordamericano, quale dei due approcci prevarrà? Saranno i cittadini americani a ridurre le loro libertà economiche, attribuendo alle autorità pubbliche maggiori poteri di regolazione e controllo, o saranno i cittadini europei che in nome del free-trade accetteranno di ridurre la tutela di diritti fondamentali come la salute?
E quindi, tornando alla diversità: saranno adottate norme comuni che permettano di tutelare le diversità alimentari dei due territori coinvolti o queste saranno sacrificate sull’altare del libero commercio? Qui occorre specificare. Se si ammette l’uso di ormoni nell’allevamento si consente di produrre più carne a costi ridotti: la logica economica vuole che ogni produttore – intenzionato a ottenere buoni profitti – adotti questo metodo. Similmente, consentire le coltivazioni di organismi geneticamente modificati induce i produttori a concentrarsi su una sola specie di prodotto (per esempio mais) resistente a infestanti e brevettabile, quindi più conveniente da un punto di vista economico. Ancora, autorizzare l’impiego di dosi rilevanti di conservanti e altri prodotti chimici, facilita conservazione e trasporto, favorendo le grosse industrie che, con prezzi minori, sbaraglierebbero la concorrenza dei piccoli agricoltori. Sono solo tre esempi, ma servono a mostrare come un’eccessiva (e permissiva) standardizzazione tende a far prevalere il “prodotto migliore”, ossia il più conveniente, a scapito degli altri. Ciò è esemplificativo di come la diversità dell’offerta dipenda in modo preponderante dalle norme, dai principi e dagli standard che compongono la disciplina comune del settore.
E quindi molto dipenderà dal fatto che nelle trattative del TTIP, ancora in corso, stia prevalendo la mentalità “mercatista” e agro-industriale, propria degli Stati Uniti o quella europea, più attenta alle prerogative della salute, dell’ambiente e delle peculiarità regionali e locali. La partita è aperta. Uno dei tavoli da gioco è quello agroalimentare e noi vorremmo tanto sapere chi sta vincendo.