Facebook censura Daniele Vicari: dopo Zerocalcare cancellato un altro post sulla Diaz
28/07/2016 di Boris Sollazzo
Ormai è ufficiale, Mark Zuckerberg è contro i no global. Dopo il post cancellato a Zerocalcare, che pubblicizzava un’iniziativa il 20 luglio in cui annunciava che avrebbe partecipato attivamente, proprio nel quindicinale della morte di Carlo Giuliani (“Per non dimentiCarlo”), ecco che il social più famoso e partecipato del mondo cancella il post di chi quei giorni l’ha raccontati al cinema come ZC ha fatto sulle pagine. Parliamo di Daniele Vicari, regista di quel capolavoro che è stato Diaz, che è voluto intervenire nel dibattito sui fatti di Genova rinfocolato proprio dalla ricorrenza. In entrambi i casi quei post hanno suscitato polemiche: accesissime sulla bacheca del disegnatore, con momenti molto tesi e vari insulti, più civili ma non meno forti quelle sulla bacheca del cineasta.
LEGGI ANCHE: DANIELE VICARI, LE SCUSE DI FACEBOOK PER LA CENSURA DI DIAZ E IL BLOCCO
LEGGI ANCHE: DANIELE VICARI NON LASCIA FACEBOOK MA RADDOPPIA E PROPONE UN INCONTRO PUBBLICO A FACEBOOK
DIAZ E GLI ASTRATTI FURORI ovvero FUORI I NOMI!!! ovvero ROSI ha fatto i nomi!!! Ovvero: Vicari e Procacci sono servi della Polizia!!!
Caro Michele Diomà, hai gentilmente pubblicato un tuo commento, sotto il mio post relativo al pezzo che ho scritto per “Articolo21” sui fatti della Diaz . In questo commento sottoscrivi «in pieno» ciò che dico nell’articolo, cioè in sintesi che la responsabilità dei fatti di Genova2001 è della Politica forse più che della Polizia (che s’è data da fare parecchio sul campo), poi mi chiedi retoricamente: «Quando stigmatizzi le responsabilità della politica a chi fai riferimento? All’attuale governo? al Pd? Il nostro amato Professore quando raccontava Le mani sulla città, indicava i responsabili di quella speculazione edilizia. Erano anni in cui il cinema provava a farla essere un po’ meno incompiuta la nostra democrazia. Oggi il cinema è ancora in grado di mostrarci il corpo a cui appartengono le Mani sporche? O almeno favorisce chi ha una simile “folle” ambizione?».
Siccome poni domande serie, e siccome sei un cineasta, non posso far altro che risponderti seriamente. Sono qualche giorno in vacanza per curare i miei “astratti furori”, quindi posso farlo con la calma e il tempo necessari. Tra l’altro è dall’uscita di Diaz che mi sento dire da un po’ troppe persone: «Rosi faceva i nomi!!», sottintendendo che io sarei un coniglio a nascondere la “verità”, cominciamo da questa infamante accusa. Qualcuno ha persino emesso comunicati, ancor prima che il film fosse fatto, con su scritto più o meno: «Vicari e Domenico Procacci sono servi della polizia». Quella che ho postato qui è la fotografia dello schermo del mio computer mentre riproduce il film che citi, cioè “Le mani sulla città”. Come puoi vedere il nostro Professore non fa nessun nome. La didascalia dice chiaramente: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Sai perché? Perché Rosi era un cineasta vero, e sapeva che “fare i nomi” avrebbe significato seppellire il film sotto un mare di polemiche e di querele. Le polemiche ci furono, ma le querele no, e il film raggiunse il mondo intero.
Quando Rosi vide Diaz mi telefonò, era in compagnia di sua Figlia Carolina e di un giornalista cinematografico che si chiama Fabrizio Corallo, che tra le altre cose scrive di Cinema per Il Fatto quotidiano e Ciak. Devo dire che non ho mai provato un’emozione così grande, quella telefonata è il mio “oscar” personale. Lasciamo perdere cosa mi disse del film, rievoco questo fatto personale solo perché il maestro mi fece una “critica” proprio sulle didascalie che io misi in coda al film, e che lui avrebbe voluto leggere in testa perché, disse, è bene che lo spettatore sappia fin da subito che tu non stai inventando.
Come puoi vedere Rosi (di spalle) è sul mio profilo, ci incontrammo a piazza S. Eustachio in una iniziativa de I ragazzi del Piccolo America, è per me un saldo punto di riferimento. Rosi, come altri grandi maestri, viene tirato spesso in ballo a sproposito. Nel caso di Diaz, all’uscita del film qualcuno, ansioso di demolirlo, scrisse da qualche parte che io avrei dovuto fare come Elio Petri, che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, fece i nomi. Indagine, come sa chiunque l’abbia visto, è un film di finzione che non fa riferimento ad alcun fatto specifico, figuriamoci se Petri avrebbe potuto metterci dei nomi. Ma qui siamo ai limiti della commedia. Torniamo alla tua convinzione che «Rosi ha fatto i nomi». Vedi Michele Diomà, io non penso che tu sia un ignorante colossale solo perché hai fatto questo errore grossolano (certo, siccome sei un cineasta la prossima volta prima di fare una citazione del genere in pubblico, forse faresti bene fare una verifica), penso invece che tu abbia davvero l’ansia di «dire la verità». Solo che tu credi che la verità sia quella che a te piace. Vorresti sentir parlare male del governo e del Pd, perdonami ma con uno come me, cioè un “socialista libertario” vecchio stampo, volgarmente detto “anarchico”, sfondi una porta aperta.
Diaz è basato sugli atti dei processi, quindi io avrei potuto rischiare e mettere i nomi delle persone implicate nei procedimenti di legge. Ovviamente avrei dovuto però mettere anche i nomi delle “vittime” oltre che quelli dei “carnefici”, altrimenti l’operazione sarebbe stata scorretta e quindi autolesionista, invece non solo non ho usato nel film i nomi dei testimoni, non li ho nemmeno forniti ai giornalisti perché mi sembrava che queste persone ne avessero già abbastanza di interviste e rotture di scatole varie, oltretutto se qualcuno vuole i nomi e i cognomi, va in rete e trova persino gli indirizzi e i numeri di telefono, perché gli atti dei processi sono pubblici. Quello per la Diaz, fu un processo che all’epoca stabili con certezza solo una cosa: «I fatti sono indubitabilmente accaduti». Cosa non si riuscì a stabilire nel primo grado, fu la “catena di comando” e i nomi dei responsabili delle “percosse”. Infine alcuni dei 28 imputati (a fronte dei 400 poliziotti presenti!) furono condannati in vario modo tra appello e cassazione, alcuni di questi prescritti o assolti. Quindi nel film avrei potuto fare ben pochi nomi dei “carnefici” o presunti tali. Va beh, mi sono detto, al di là della inoppugnabile verità processuale, che certifica la veridicità del bliz e dei metodi utilizzati, esiste una verità storica: In Italia, nel 2001, è stato sospeso lo Stato di diritto, e centinaia se non migliaia di cittadini (di tutto il mondo) sono stati picchiati selvaggiamente e persino torturati. Che altro c’è da dire? «Il senso di un film è contenuto sulla punta di uno spillo», questa affermazione di O. Welles l’ho imparata a scuola e me la ripeto ogni giorno. Se vuoi saperlo io penso che la responsabilità dei fatti della Diaz e di Bolzaneto sia anche mia e tua, perché noi viviamo in un regime nel quale la pratica della Tortura è ampiamente accettata, e non ci ribelliamo se non ci tocca personalmente, se non incappiamo per nostra sfortuna in qualche meccanismo infernale, come Cucchi, Adovrandi… Mastrogiovanni e tanti altri. Sono i cittadini italiani a non volere le norme sulla tortura, altrimenti tirerebbero giù il parlamento, perché è dal 1984 che l’Onu chiede a tutti i suoi membri di approvere norme sul tema, e l’Italia, ad oggi, non l’ha mai fatto. Vuol dire che la classe dirigente sa che “al popolo” non gliene frega nulla di questo tema. Credo.
Ma torniamo al cinema: davvero tu credi che un film debba essere una “gogna” per presunti colpevoli? Se pensi questo è meglio che fai un’altra carriera, perdonami. I cineasti, quando si sostituiscono alla giustizia o alla politica, diventano aguzzini a loro volta, boia, o nel migliore dei casi giudici che emettono sentenze, ma un giudice non è un artista, un giudice segue i suoi principi e le scienze giuridiche, i codici, le procedure. Nulla di tutto ciò ha a che fare con il cinema. Un film, come dice il “Professore” Rosi nella didascalia al termine de Le mani sulla città, deve “alludere” ad una realtà, trasfigurarla, e tentare di restituirla in modo che sembri si “vera” ma in modo che non si sovrapponga con la mera nuda e cruda realtà dei fatti. E’ per questo, credo, che Diaz in giro per il mondo è stato accolto così, come un film che attraverso il racconto complesso di un fatto “specifico”, assurge ad una sua qualche universalità, piaccia o non piaccia il film.
Poi c’è un “dettaglio” da tenere in considerazione: io non sono Rosi ovviamente, e ho i miei limiti, quindi il mio film rispecchia questi limiti, anche questa è una verità per me dolorosa, ma con la quale devo fare i conti ogni giorno. Così gli spettatori dei miei film.
Infine ti chiedi se oggi il cinema è in grado di mostrare “il corpo” di chi ha le mani sporche. Mah, io spero di no, spero che il cinema sia in grado di farci riflettere, sempre, nel bene e nel male, di farci fare domande, anche angoscianti e dolorose, ma domande.
Siamo seri, il problema che abbiamo è un altro: molti “grandi festival” e il cosiddetto “mercato” cercano opere perlopiù innocue, “mainstream”, stilose, egoriferite, ma rifiutano la complessità e la crudezza di tutto ciò che è “reale”. I conflitti della società sono espunti dal grosso delle cinematografie mondiali, i cineasti cercano (legittimamente) il successo, e la crudezza del “reale” è respingente. Anche quelli che strillano come oche “i nomi, i nomi”, fanno marketing attraverso una forma di “denuncia” sguaiata, garrula, e interessata, perché gli “scandali” fanno audience, come i “culi, le tette e gli addominali”, ma sfioriscono con gli anni, proprio come i “culi, le tette e gli addominali”.
Per fortuna ci sono migliaia di cineaste/i che accettano il duro lavoro quotidiano che è necessario per tirare fuori quei significati, magari indigesti, ma che poi restano li, come pietre, a segnare il cammino, che è faticoso, però ci porta da qualche parte, almeno spero.
Un post civile, argomentato, lungo, che prima che ripercorrere la violazione più grave dei diritti umani nel dopoguerra, fa parte di una nobile polemica cinematografica, etica ed estetica. Tanto che nel dibattito è entrata anche la figlia del citato Francesco Rosi, a dar ragione a Vicari con un post circostanziato ed emozionante. Ed è proprio lei a far notare che il post è sparito.
Una follia, insomma. Facebook mostra sempre più una discutibile gestione dei suoi contenuti: permette post intrisi di bullismo, machismo, omofobia, razzismo. Tollera status apertamente fascisti, ma di fronte alla dialettica cinematografico-politico tira fuori l’algoritmo “Diaz” e nasconde, censura, blocca contenuti. Probabilmente su segnalazioni di chi non accetta il dissenso e con la logica del branco gli manda reclami che, per quantità, “costringono” il social a oscurare le parole di un suo iscritto. Civili, interessanti, profonde.
Il cinema, peraltro, è già stato vittima di questa censura. E chi l’ha subita è Carmine Amoroso, autore del bellissimo documentario “Porno e libertà”. Mettendo insieme le tre vicende di Zerocalcare, Vicari e appunto Amoroso vien da chiedersi se a Facebook e Zuckerberg faccia più paura la parola porno oppure la parola libertà.
Daniele Vicari ha ripostato il post proprio negli ultimi minuti. Cancellato di nuovo da Facebook, con tanto di minaccia di blocco dell’account. Eppure aveva provato a far ragionare il social con una premessa chiara. Questa:
NB: RIPOSTO IL POST CANCELLATO, CARA FACEBOOK NON CAPISCO QUESTA STUPIDAGGINE CHE HAI FATTO, NON CREDO CHE CIO’ CHE E’ SCRITTO QUI POSSA ESSERE DI NOCUMENTO A NESSUNO. MI AUGURO CHE NON SIA UNA ATTITUDINE CENSORIA, ALTRIMENTI PASSERO’ PER LE VIE LEGALI. Come mi fa notare Gianni Molino, anche Zerocalcare ha ricevuto lo stesso trattamento per il suo post su Carlo Giuliani, non vorrei ci fosse un legame.
Noi di Giornalettismo lo abbiamo contattato. Ecco le sue parole:
Siamo su Facebook nell’era della follia telematica, e durante una civilissima polemica con un giovane regista in merito alle nostre rispettive idee sul cinema, nella quale polemica viene incautamente tirato in ballo il grande Francesco Rosi, è accaduto che il mio post sia stato sospeso per via dei contenuti ritenuti non leciti da qualche “algoritmo” pazzo. Ovviamente io l’ho ripostato e la censura è scattata di nuovo, con minaccia di sospensione dell’account. La cosa francamente fa ridere, se Facebook non mi vuole me ne farò una ragione. Però c’è un però: mi sembra che questi episodi si stiano ripetendo un po’ troppo spesso, ne ha fatto la spesa Zerocalcare per un suo post su Carlo Giuliani, alcune madri che allattano… non è che per caso questi episodi finiscono per compromettere anche la “libertà” d’espressione sulla quale prosperano i miliardari che hanno creato e continuano a creare i “social”? E non ci fa presagire anche il pericolo di un “supercontrollo” standardizzante dinanzi al quale il “grande fratello” orwelliano sembra francamente innocuo? Per fortuna in Cern, che detiene il brevetto del WWW, lo ha messo gratuitamente a disposizione del mondo. Magari è arrivato il momento di avere social “condivisi”, pubblici, come è pubblico e gratuito il web?
Come si è evoluta la situazione? Daniele Vicari ha scritto a Facebook e i suoi utenti: «Basta con la censura sulla Diaz e Carlo Giuliani»
Nota del redattore: Il regista Michele Diomà ci ha informato che rifiuta la deduzione di Vicari sulle sue considerazioni e non si identifica come autore delle accuse, nei confronti dello stesso,, affermando di non aver mai scritto che avrebbe, il regista di Diaz, «taciuto i nomi dei poliziotti all’interno del film Diaz». In questo articolo comunque non si parlava della suddetta polemica tra i due cineasti ma di quella di Vicari contro Facebook. Ci siamo limitati a riportare i post scritti da Vicari e una sua dichiarazione alla nostra testata.