Le storie di Gigi Simoni e del suo calcio in tre dimensioni
05/01/2017 di Redazione
È in libreria da pochi giorni, edito da Goalbook Edizioni, “Simoni si nasce. Tre vite per il calcio”, una biografia di un anti-personaggio del calcio italiano. L’hanno scritta Rudi Ghedini, Luca Tronchetti e Luca Carmignani. Simoni è stato calciatore, allenatore e infine dirigente: non ha giocato in Nazionale e non ha vinto scudetti, eppure ha vinto quasi ovunque, accumulando dodici promozioni. Giornalettismo anticipa alcune pagine del libro e il racconto della sua vita da giocatore del Mantova e la vittoria contro la Roma della Coppa Italia con il Napoli. Ma per i tifosi dell’Inter si tratta dell’uomo che ha subito il più grave danno della loro storia recente…
Dal piccolo Brasile all’armatore seminudo
Da Firenze, a Mantova. Fu Fabbri a volermi. Era un allenatore che seguiva molto i settori giovanili, mi aveva visto e lavorava per una società che aveva bisogno di procurarsi giocatori in prestito o a basso costo. Venne combinato uno scambio: al Mantova andammo io e Sergio Pini, mentre Eugenio Fantini, il centravanti che aveva segnato il gol della promozione del Mantova dalla C alla B, fu ingaggiato dalla Fiorentina. L’affare l’ha fatto il Mantova… Il direttore sportivo era Italo Allodi, proprio in quel periodo Angelo Moratti lo stava portando all’Inter.
Che mi sarei trasferito al Mantova, venne a dirmelo il direttore della Fiorentina, il dottor Giachetti: loro volevano portare a termine quello scambio, ma andare via da Firenze, da quell’ambiente, mi dispiaceva. Però, in cuor mio sapevo che non avrei potuto togliere il posto a Hamrin. Pensai che così mi avvicinavo a casa. Tutto sommato, era una buona soluzione.
In me, innanzitutto, prevaleva la voglia di giocare. È vero, l’avrei fatto in Serie B e in una neo-promossa. Ma andai a Mantova con forti motivazioni: mi aveva voluto Fabbri, sapevo che avrei giocato titolare. Quelli che non capisco, sono quei calciatori di oggi, che già a venti o ventidue anni scelgono di andare in una squadra dove sanno che non giocheranno quasi mai. Vabbé, incassano un sacco di soldi, però non giocano. Aggiungo, che loro hanno la possibilità di scegliere, noi no… A vent’anni anni non hai voglia di giocare? Posso capire a trenta, uno può arrivare a dirsi che deve guadagnare più che può, finché può, e firma un contratto vantaggioso anche se giocherà di meno. Comunque, allora non ho avuto dubbi e non l’ho vissuta come una retrocessione. Ho scelto di giocare.
Al Mantova sono rimasto quattro anni, due stagioni per volta, intervallate da quella a Napoli, in serie B, dove abbiamo conquistato la promozione e vinto la Coppa Italia. C’è da esserne orgogliosi, sono passati più di cinquant’anni e quel Napoli resta l’unica società di B ad aver alzato la Coppa. Fu allora che conobbi Achille Lauro, “il Comandante”.
Nei quarti di Coppa Italia, andammo a vincere all’Olimpico, 1-0 sulla Roma. Vittoria sorprendente quanto meritata, a Napoli produsse un eccezionale entusiasmo. Io ero dotato di una discreta tecnica, quel giorno mi capitò di fare tre o quattro tunnel, e un giornale napoletano titolò: “Abbiamo il Sivori dei poveri“, o qualcosa del genere… Lauro deve averlo letto e volle conoscermi. Mi fece chiamare dal suo uomo di fiducia, il commendatore Alfonso Cuomo, a cui aveva affidato la gestione della società. L’appuntamento era presso i suoi uffici da armatore: mi ricevette seminudo, mentre prendeva la tintarella… Stava sul terrazzo ad abbronzarsi, il suo ufficio si apriva su un enorme terrazzo. Era curioso, chiacchierone, voleva farmi tante domande, sapere chi ero, com’era andata a Roma, e intanto mi chiamava “Quaglione”, “Quagliò”… Spesso, prima delle partite casalinghe, Lauro faceva un giro sulla pista del San Paolo, a raccogliere applausi. Dell’attività ordinaria, in società, si occupava Cuomo.
Ma torniamo a Mantova. Fabbri faceva capire subito che c’erano gerarchie precise: undici titolari, e giocavano sempre quelli, poi cinque o sei riserve, e al gruppo venivano aggregati tre o quattro fra i migliori delle giovanili. Giocavi solo se uno dei titolari era infortunato o squalificato, oppure faceva una serie di prestazioni pessime. Ero titolare, finché non ho dovuto operarmi al menisco, il secondo anno.
La prima stagione fu buona, arrivammo quinti e la squadra era più o meno la stessa che veniva dalla Serie C. Anzi dalla D: due anni prima, gran parte dei miei compagni giocava in quarta serie. La seconda stagione, invece, fu strepitosa, Fabbri ci pilotò in Serie A giocando un calcio spettacolare: qualcuno l’etichettò come “il piccolo Brasile“. Giustamente Fabbri venne premiato con il Seminatore d’oro, il premio al miglior allenatore prima della Panchina d’oro.
Nelle prime due stagioni mantovane ho giocato 47 partite e segnato 10 gol; nelle due dopo il rientro da Napoli, 48 partite e 8 gol. Forse non sono stati i miei anni migliori dal punto di vista tecnico, certo quelli più felici dal punto di vista umano.
Vivevamo la squadra 24 ore su 24. In ritiro tutti i giovedì: quando giocavamo in casa, andavamo a Bardolino. Fabbri voleva essere lì al giovedì pomeriggio, e aveva organizzato la partitella di allenamento con una squadra della zona. I giocatori sposati avevano certi orari, un po’ di libertà in più ma neanche tanta, i non sposati dormivano tutti insieme. Oltre alle indicazioni tattiche su quello che ognuno doveva fare in campo, Fabbri dettava prescrizioni minuziose su come comportarsi. D’inverno, mutande lunghe: a Mantova c’è un freddo umido, lui era un perfezionista.
La dieta era simile a quella delle altre squadre: pastasciutta o riso, e filetto; la domenica, qualche volta, pollo arrosto… Noi non sposati, otto o nove persone, dopocena si usciva tutti insieme. Passeggiata sotto i portici, a volte un cinema, oppure a vedere la televisione, Lascia o Raddoppia, poi a letto. Camere doppie. C’erano personaggi come Gustavo Giagnoni e Renzo Longhi, Ettore Recagni e William Negri. Per Fabbri, un calciatore non doveva avere distrazioni. Esisteva il sacrificio e basta. Ma l’ho sempre detto: è stato il miglior allenatore che abbia avuto. In seguito, qualcuno forse l’ha superato, ma a quel tempo credo fosse il migliore di tutti. Non per niente, venendo dal piccolo Mantova è arrivato alla Nazionale.
All’allenamento dovevo andarci in bicicletta, ma è a Mantova che ho potuto comprarmi la prima automobile: un maggiolino Volkswagen verde, con cui ogni settimana facevo ritorno dai miei, a Crevalcore. Prima, c’era stata una Vespa GS: per me era già un sogno, guidarla mi piaceva moltissimo, soprattutto lungo la strada in collina per rientrare da Firenze. A Torino, invece, mi sono potuto permettere un’Alfa Romeo GT, e poi una bellissima Lancia Flavia: con questa ho avuto un brutto incidente, per fortuna senza procurarmi seri danni. C’è stato un periodo in cui ho avuto una vera passione per le automobili, quando stavo a Torino sono andato a vedere fiere e saloni specializzati. Una volta vi ho incontrato un giornalista che seguiva sempre la Juventus, Beppe Barletti, ed era stupito di vedermi in un posto simile. Mi interessavo alle carrozzerie, ai motori, non potevo certo considerarmi competente, ma certe automobili emanavano un fascino… Ci sono passioni che uno tiene per sé. Per esempio, ci sono stati periodi in cui, appena avevo un momento libero, entravo in qualche museo a vedere i grandi pittori. Mi piacevano soprattutto l’Illuminismo e i suoi paesaggi, Cézanne il mio preferito. Lo dico a bassa voce: ho anche provato a dipingere qualche quadro a olio, ma non li ho mai mostrati a nessuno.
A Mantova ho conosciuto le amicizie più vere, più normali. Fra quelli più giovani, si condivideva tutto, si passava tutto il tempo insieme, come fratelli. Non c’erano telefonini e videogiochi. Il mio compagno di stanza era Sergio Pini, tre anni più grande. È il legame più forte che ho stretto nel mondo del calcio. Abbiamo giocato insieme, in squadre diverse, per otto campionati. Tanto tempo dopo, da allenatore, ho chiesto a Pini di diventare il mio “secondo”. Lo ha fatto per ventiquattro stagioni, su tredici panchine diverse. Sommando gli anni da calciatore e da allenatore, fanno trentadue: una specie di “coppia di fatto” (mi pare fosse Anconetani, il presidente del Pisa, a usare questa espressione).
Abbiamo abitato insieme per tanti anni, io e Pini, nello stesso appartamento. Lui nasce mediano, poi evolve in centro-mediano. Avrebbe dovuto passare al Milan, era il più dotato di noi, invece ha fatto un carriera così così. Era stato prenotato dal Milan, in rossonero aveva già giocato un torneo estivo, l’hanno ceduto al Vicenza, dove ha avuto un grave infortunio. Fui proprio io a rompergli la gamba.
In campo, Pini era uno di quelli che pensava alla squadra più che alla prestazione individuale. Non è un caso che giocasse nel ruolo che più spesso ti porta a diventare allenatore. Molti allenatori vengono dall’aver giocato centrali di difesa o centrali di centrocampo. È così che hanno imparato a vedere il gioco a 360 gradi. Se sei un’ala destra, un terzino o un centravanti, hai la tua zona a cui pensare, e pensi solo a quella.
Da allenatore, quando ho dovuto scegliere un capitano, ho seguito lo stesso criterio: la personalità e il ruolo. Puoi dare più importanza all’una o all’altro, dipende. Ma un portiere, anche un grande portiere, non lo farei capitano: il portiere ha una visione parziale, comanda la difesa, ma l’arbitro è spesso molto lontano. In genere, l’arbitro staziona fra le due aree di rigore, ed è meglio se il capitano gioca in quella zona. Ovviamente, devi valutare anche il valore tecnico del calciatore e da quanti anni sta in quella squadra: da allenatore, devi farne tante, di considerazioni… A me è capitato di giocare in una squadra, per poi tornare ad allenarla: in quei casi, sai già com’è l’ambiente, chi sono i calciatori di maggiore personalità, ed è fra quelli che scegli. Ma sono pensieri teorici, tutti da verificare sul campo. Da lontano, non puoi capire.
Da lontano, mi è difficile capire la scelta di Icardi come capitano dell’Inter. È solo un esempio: ma Icardi è molto giovane, gioca centravanti, quando devi criticarlo duramente, come ha fatto Mancini, il fatto che sia il capitano può complicare le cose. Diventa antipatico richiamare il capitano e dirgli di correre di più. Diverso è il discorso se a portare la fascia è uno come Beppe Bergomi, che aveva un esperienza di Inter come nessuno, o Javier Zanetti. Penso che Zanetti abbia un bellissimo carattere e sia sempre un esempio, ma se c’è da affrontare una situazione critica, il mio capitano ideale è uno come Simeone. (…)