Giorgio Ambrosoli, un eroe da non dimenticare. 35 anni dopo
11/07/2014 di Donato De Sena
Morire per aver svolto il proprio, semplice, dovere di cittadino onesto. Essere condannato alla pena capitale per la propria, normale, battaglia per la legalità, condotta senza mai piegarsi davanti alle minacce e ai tentativi di corruzione. È la storia di tanti eroi del nostro paese. Di politici, magistrati, poliziotti. Ma è anche la storia di un avvocato, un commissario liquidatore di una banca, assassinato a colpi di pistola da un killer ingaggiato dal padrone dell’istituto di credito sul quale vigilava. Parliamo di Giorgio Ambrosoli, ucciso su commissione del banchiere Michele Sindona esattamente 35 anni fa a Milano, la sera dell’11 luglio 1979, mentre tornava a casa dopo una tranquilla serata trascorsa con amici.
ONESTO – Ne aveva viste troppe, Ambrosoli. Conosceva benissimo i rischi che correva portando a galla i segreti di una finanza quantomeno opaca. Ma era anche tenace. Era poco protetto dallo Stato, ma continuava a lavorare nell’interesse del Paese, come lui stesso diceva nelle lettere alla moglie, mentre l’avvertiva della possibilità di ritrovarsi un giorno sola nell’accudire i figli e costruire il loro futuro. «Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare», scriveva Ambrosoli, nel 1975, già raggiunto da pressioni e intimidazioni. La sua valorosa e tragica storia comincia nel 1971, quando la Banca d’Italia inizia a sospettare dell’attività del Banchiere siciliano Sindona e, attraverso il banco di Roma, fa partire indagini nel tentativo di evitare il fallimento degli istituti di credito da lui gestiti, ovvero la Bnaca Unione e la Bnaca Privata Finanziaria. Ad occuparsi della vicenda è in particolare il direttore generale del Banco di Roma Giovanbattista Fignon. I due istituti di credito vengono fusi in Banca Privata Italia. Fignon ne diviene presidente e amministratore delegato e ricostruisce in molte relazioni le operazioni gravose di Sindona, ordinandone poi l’immediata sospensione, e consegnando infine, nel 1974, ad Ambrosoli i suoi resoconti.
(Foto da archivio LaPresse. Credit: AP / Ferdinando Meazza)
CORAGGIOSO – A quel punto è proprio l’avvocato ad essere individuato come commissario liquidatore della banca, assumendone la direzione e trovandosi ad analizzare nel dettaglio tutte le complesse operazioni, a partire dalle società controllate. Ambrosoli si trova di fronte all’onere di liquidare le spettanze di coloro che avevano depositato denaro e scopre e certifica diverse e gravi irregolarità, come le scritturazioni contabili errate, oltre alle connivenze di pubblici ufficiali con il mondo che ruotava intorno a Sindona. Cominciano dunque nei sui confronti i tentativi di corruzione che mirano ad ottenere il suo via libera a documenti che avrebbero, erroneamente, provato la buona fede di Sindona.
TENACE – Se Ambrosoli avesse davvero ceduto sarebbe stato lo Stato a dover sanare gli scoperti della banca e Sindona avrebbe evitato ogni guai con la giustizia sia sotto il profilo civile che penale. Ovviamente l’avvocato scelse la via della legalità. E continuò a seguirla anche dopo essere stato minacciato per ritrattare la sua testimonianza resa ai giudici americani che indagavano sul crack del Banco Ambrosiano. Già, perché l’indagine di Ambrosoli non si fermò alla Banca privata italiana. La responsabilità di Sindona emerse anche nei confronti di un altro istituto di credito, la statunitense Franklin National Bank, la cui situazione economica era ancora più critica.
INDIFESO – Si cominciò dunque in quegli anni a parlare anche di morte, nelle telefonate intimidatorie, che si rivelarono poi preludio agli spari dell’11 luglio 1979. A premere il grilletto fu William J. Aricò, killer pagato da Sindona con 25mila dollari in contanti e 90mila versati su un conto svizzero. A terra finiva un uomo corretto e coraggioso che voleva essere da esempio innanzitutto per i suoi figli ma anche per il Paese che amava servire ma che non si era adoperato per difenderlo. Ad Ambrosoli non fu accordata alcuna protezione da parte dello Stato. Ma lui alla moglie nel 1975 scriveva: «Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese».