I bambini sanno, Walter Veltroni interroga il nostro futuro – RECENSIONE

I BAMBINI SANNO DI WALTER VELTRONI –

“Una veltronata”, si sente dire, da molti, vedendo il trailer de I bambini sanno (produzione Sky realizzata da una collaborazione Wildside-Palomar e distribuita da Bim Film) di Walter Veltroni. I massimi sistemi affidati ai bambini e a degli adolescenti, il “buonista” che li interroga su ciò che pensano, desiderano, vogliono, cercano dalla vita.

E l’impressione è che verso chi passa, tranquillamente, dalla possibilità di diventare Presidente della Repubblica a regista del proprio secondo film, ci sia un pregiudizio molto simile a quel “so forti l’ammericani” di Sordi o del “Tu vuò fa l’americano” di Carosone. Gli rimproverano, in qualche moto, l’inclinazione all’ottimismo e alla voglia di narrazione politica e morale, troppo entusiasta e per alcuni ingenua, e soprattutto imperdonabile nella nostra sinistra pessimista e disfattista. E allora Walter che parla dei bambini e soprattutto con dei bambini, di Dio, crisi e famiglia, di gay e di cosa sanno in più i più piccoli rispetto agli adulti, crea snobistico scetticismo. Non aiuta, forse, il trailer, che pesca nel mazzo le frasi e le facce che, decontestualizzate, fanno sembrare l’opera un’accozzaglia di giovani mostri, nel bene e nel male: dal supersecchione all’attore non ancora decenne che si pettina come il bisnonno.

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I Bambini Sanno di Walter Veltroni
I bambini sanno, invece, è un viaggio potente, profondo, sensibile nel nostro futuro. In una fetta della nostra società che ignoriamo – come facciamo con i più vecchi – perché per questo paese e questo mondo chi non è produttivo, semplicemente, non conta. Il cineastapoliticogiornalistaintellettualeexsindaco scopre e ci fa scoprire che nonostante abbiamo fatto a pezzi il tessuto sociale, culturale e morale di tutte le classi sociali, che pur avendo operato negli ultimi decenni un massacro generazionale, a quell’età c’è ancora qualcosa di puro, duro a morire, prezioso. Ancora non corrotto. E l’autore, qui, ha l’idea semplice ma risolutiva di mettersi alla loro altezza. Senza ipocrisie: sorride delle battute inaspettate, sussulta quando viene sorpreso. E’ un adulto, non un finto bimbo. Ma che si mette in gioco e decide di parlare con loro. E non “a loro”. Li vuole ascoltare. Vuole imparare, appunto, ciò che i bambini sanno. E che si intenerisce, come tutti noi, alle risposte geniali di Luna e della sua gemella Gaia. Così vicine e così diverse (la prima ha la sindrome di Down), capaci di aprirci uno squarcio su sentimenti che forse abbiamo persino dimenticato di saper provare. Laddove la diversità è solo differenza. In cui la debolezza di una è la forza dell’altra. E viceversa.

WALTER VELTRONI REGISTA –

Con Quando c’era Berlinguer, Veltroni ci aveva offerto un ottimo esordio, con un documentario narrativo e storico che parlava a una generazione orfana – una condizione ricorrente nella narrazione veltroniana, non solo visiva – di ciò che era e poi sarebbe potuta essere la sinistra, con la civettuola ma moderata convinzione di essere l’unico vero erede del politico sardo. Incompreso. Lo scarto, lì, era l’intuizione di un Berlinguer strozzato dal suo popolo, da ambizioni che aveva capito essere impossibili, da una sinistra bambina che non seppe, né volle crescere. E cominciò a morire al suo apice.

Anche lì, da regista, non si è sottratto alla sfida, non è rimasto in disparte, ha saputo raccontarsi e raccontare. Il vago sapore nostalgico dell’operazione era sincero, sentito, vero. Proprio come questo viaggio nell’infanzia che compie senza rete. Senza pregiudizi di classe, cercando il bimbo rom, Marius – e realizzando un suo sogno, in fondo è pur sempre Walter “I care” – così come i figli di Wicky Hassan, imprenditore fondatore del brand Miss Sixty, andandosi a pescare l’infante siciliano con un quoziente intellettivo da record, genio solitario e consapevole, così come la scrittrice orfana di padre. O il bimbo che il padre l’ha perso perché fuggito dalla sua esistenza, con quella bicicletta a materializzare la peggiore delle ingiustizie, quella della scomparsa di chi ti ha messo al mondo quando ne hai più bisogno, in qualsiasi momento avvengam. Come Nanni Moretti, Veltroni non nasconde l’assenza che lo lacera (la perdita prematura del padre per lui, così come per il cineasta di Brunico è stata quella ben più tardiva della madre) ma ne fa motore del film e strumento di comprensione di quel mondo altrimenti lontanissimo, anagraficamente e non solo. Ci impedisce, l’autore, di prendere sotto gamba i suoi protagonisti: sono le sue domande attente, la sua recitazione asciutta (probabilmente spontanea, conoscendolo) a dar loro credibilità, a proibirci qualsiasi condiscendenza. Anche per quei bambini sanno. Sanno davvero. E sa Veltroni, che, come dice uno dei suoi “attori”, il dolore scava più a fondo nei più piccoli, che c’è una purezza che porta più in là nella loro sensibilità, che i massimi sistemi, forse, li può affrontare solo chi ha sovrastrutture, emotive e intellettuali, minime. Anzi, non ne ha. Lui si tiene a freno con le idee di regia, affidate a momenti di stacco tra un capitolo e l’altro, perché il lungometraggio si divide in grandi temi, da Dio alla crisi, e un’emozione non la puoi interrompere. Non invade il campo con il talento che pure, forse, vorrebbe mostrare, lascia spazio a quei pensieri in libertà, a quegli occhi dolci e allo stesso tempo determinatissimi, che a volte vanno altrove ma non si perdono mai, a piccoli grandi mondi che si aprono davanti a lui. E a noi. E se vogliamo trovare un difetto, è l’assenza di conflittualità. Bimbi problematici, “cattivi”, non ne troviamo. Le loro ombre non ci sono, ma solo quelle che si proiettano su di loro, cercando di oscurarli. Ma non è quella la direzione che ama cercare, intellettualmente ed emotivamente, chi è dietro la macchina da presa. E non può certo snaturarsi ora.

I Bambini sanno di Walter Veltroni

WALTER VELTRONI, UNO, NESSUNO E CENTOMILA –

E allora ecco che il 23 aprile ci ritroveremo in sala un piccolo gioiello, che, chissà, alcuni scherniranno. Si sa, ai “perché” dei figli si risponde spesso con noncuranza e superficialità, figuriamoci che credibilità conviene dare a dei bambini da parte di adulti assuefatti alla gerontocrazia del potere. Quello di Veltroni è un film sul ricambio generazionale radicale di cui necessitiamo. Sull’attenzione che ormai forse è necessario puntare su chi può ancora crescere in un mo(n)do diverso e possibile. Una generazione da proteggere e sostenere ancor prima dei 20enni, 30enni e 40enni traditi proprio dai coetanei del regista, dalla classe dirigente a lui coeva, incapace di guardare oltre se stessa. Perché, come dice uno di questi ragazzini irresistibili, “futuro è una bella parola”. E lo dice uno di quelli per cui forse, il domani sarà più difficile.

Ma se qualcuno lo stroncherà, non ci sarà da stupirsi. In Italia, in fondo, apprezzano i politici che vanno con le minorenni, non certo quelli che con i minorenni provano a parlarci. E che magari addirittura li ascolta, si sforza di capirli, cerca in loro domande e risposte.

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