I dieci migliori film del 2014
28/12/2014 di Boris Sollazzo
Difficile fare una classifica in un’arte complessa come il cinema. Difficile farlo in un 2014 che non ha offerto capolavori sconvolgenti (o forse sì), ma tanti buoni film. Difficile fermarsi a 10 e tenere fuori, per dire, Ida, Alabama Monroe o Il giovane favoloso, veri e propri gioielli di cui sentiremo parlare anche negli anni a venire. Ma ci si deve provare. E allora, eccoci qua, pronti a leggere anche la vostra top 10. In “gara” i film usciti, in Italia, nel 2014.
1. Boyhood di Richard Linklater
Con la trilogia dell’amore senza tempo – Prima dell’alba, Prima del Tramonto, Before Midnight – ci aveva mostrato la cristallizzazione dei sentimenti. Con Boyhood ce li offre in diretta, nella violenta progressione della quotidianità che si fa metafora di un mondo intero. Che fosse ossessionato dal tempo, il buon Richard, era evidente già da Slacker, dove mostrò 24 ore delle vite di 100 personaggi. Che questo arrivasse fino a fargli girare un film in 39 giorni distribuiti in 12 anni, non potevamo prevederlo. Un miracolo antropologico, oltre che cinematografico, un capolavoro che fra 100 anni sarà celebrato come Bergman lo è ora.
2. Locke di Steven Knight
Dura la metà di Boyhood (85 minuti contro 166), ma a suo modo è rivoluzionario e potente come chi lo precede in classifica. Ivan Locke costruisce edifici. E al telefono, in macchina, viene demolita la sua vita. Nella notte prima della sua consacrazione la chiamata di una donna spazza via tutto. E parte un thriller chiuso in un abitacolo, un geniale esempio di regia e recitazione: Knight costruisce un mondo in uno spazio angusto, Tom Hardy, attore sempre più completo, lo riempie con il suo talento. Questo cineasta, e sceneggiatore, non solo conferma le ottime impressioni lasciate con Redemption, ma fa un ulteriore salto di qualità. E dimostra di essere una manna per interpreti dotati di grandi qualità. A dimostrazione che il cinema è uno, nessuno e centomila, c’è da dire che alla faccia dei 12 anni di Boyhood questo gioiello è stato girato in sole 8 notti, dopo pochi giorni dalla consegna della sceneggiatura.
3. The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese
Martin Scorsese shakera il meglio di Casinó, di The Aviator e persino de Il colore dei soldi, poi decide di portare tutto al parossismo. La storia è vera, il film è fluviale nella durata e “tsunamico” nell’impatto sullo spettatore (ti arriva addosso un’onda visiva e narrativa incontenibile), Leonardo Di Caprio è al suo meglio. Una lezione di cinema su come la Settima Arte possa stupirti, sconvolgerti e coinvolgerti. Tre ore per la vita spericolata di Jordan Belfort, tutta sesso, soldi e successo. McConaughey cinque minuti da Oscar, Hill il solito pilastro, Margot Robbie da infarto. Un gran film, di una potenza dimenticata in questo mondo dimesso.
4. Gone Girl di David Fincher
David Fincher non ne sbaglia una. Almeno per chi scrive. Perché se rivedeste Zodiac ne intuireste la bellezza, per dire. Qui però torna dalle parti di Seven, in quella zona d’ombra in cui l’uomo, alle prese con l’indicibile, recede e cade, sconfitto. Gone Girl, il cui titolo italiano è per una volta azzeccato (L’amore bugiardo) ci dà l’illusione di un thriller classico, nell’intreccio noir, per poi colpirci a tradimento, con una parabola sull’amore, sulla coppia, dolorosissima e devastante come fu quello sparo di Brad Pitt al serial killer del cult forse più noto di questo regista. Affleck e Pike, “socialmente” perfetti e inevitabilmente felici, anche grazie alla loro bravura, nascondono ciò che sono così bene che a metà del film lo spettatore è convinto di aver capito tutto, ma non è nemmeno all’inizio della strada.
Un consiglio? Vedetelo da soli. Un lungometraggio così potrebbe spezzare la fiducia in qualsiasi dei vostri affetti più grandi.
5. I guardiani della galassia di James Gunn
State tutti aspettando i prossimi kolossal Marvel e a celebrare quelli passati. Eppure forse non vi siete accorti che il capolavoro del sottogenere supereroistico targato Stan Lee (92 anni appena compiuti) e soci è questo. James Gunn, anche attore, ha la capacità di rendere questa fantacommedia allo stesso tempo esaltazione e parodia di un modello narrativo ormai predominante. Un procione con la voce di Bradley Cooper, un albero umanoide con quella di Vin Diesel: serve qualcos’altro per convincervi a vederlo? Il resto è scrittura perfetta, regia fantasiosa e a prova di critico, Zoe Saldana che conferma di essere sexy anche da aliena (dall’azzurro di Avatar al verde di Gamora).
6. Due giorni, una notte di Jean-Pierre e Luc Dardenne
In questo mondo di precari c’è ancora bisogno di eroi. E la piccola, fragile, scossa Marion Cotillard, mai così dimessa e anche per questo bellissima, lo è. I Dardenne ci offrono un thriller laburista, una sorta di Speed in cui il tempo è denaro, anzi lavoro. E lo fanno con la loro profondità umana, con la loro rabbia verso le ingiustizie, con la forza di chi ha capito questa società ingiusta e vuole sbattertela in faccia. Solo chi è stato Sandra capirà davvero questo film, solo chi ha combattuto e perso con dignità l’infame guerra tra poveri a cui gli under 40 sono costretti ogni giorno, comprenderà la forza di quest’opera. E la bravura di Fabrizio Rongione, marito, sodale, pungolo. Biografia di una generazione fantasma. “Io non esisto” dice a un certo punto la protagonista. A suo modo ha ragione.
7. Frank di Lenny Abrahmson
Michael Fassbender lo abbiamo glorificato per una performance letteralmente scarnificata (Hunger), per le sue doti grandiose di attore e non solo (Shame), per dare umanità persino a un automa (Prometheus), per rendere raffinato, con il suo Magneto, anche il film più commerciale (X-Men). Qui la sfida è quadrupla: recita con una maschera, una faccia tonda e inquietante, gigante. E anche così, privo di quel viso bellissimo ed espressivo, è il migliore attore degli ultimi anni. Storia musicale, rock, malinconica, lacerante, anche grazie a interpretazioni come quella di Maggie Gyllenhall e Domnhall Gleeson. Un’opera sul talento, sul groupismo, sulle meschinità della grandezza (e viceversa), sulla periferia della società dello spettacolo, un Almost Famous 2.0.
8. Anime Nere di Francesco Munzi
Meritava miglior sorte, a Venezia, questa gangster story tra Calabria, Olanda e Milano. Francesco Munzi ha la forza di un Coppola prima maniera (e primo Padrino), senza orpelli, e la lucidità di un Verga nel disegnare un mondo antico, ruvido, implacabile. Rispolvera Marco Leonardi (ma ancora più bravo è Peppino Mazzotta), talento che sembrava perduto, ha il coraggio di scelte di regia mai banali e di sceneggiatura – vedi il finale – coraggiosissime. Un meccanismo perfetto, premiato dal pubblico, e che ci dice sul nostro paese più di quanto vorremmo sapere. Un grande film italiano. Quest’anno, peraltro, siamo stati fortunati: si pensi a un altro gioiello come Il giovane favoloso di Martone (un grandissimo Elio Germano) o a un lavoro mirabile come In grazia di Dio di Winspeare.
9. Il sale della terra di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
Wenders, regista e fotografo, racconta Salgado, il genio del bianco e nero e della fotografia delle nostre realtà più dolorose. E lo fa in un documentario che ha superato il milione di incasso in Italia. Wim nell’opera monumentale di raccontare l’arte di questo maestro dell’immagine si fa aiutare dal figlio del protagonista, Juliano Ribeiro Salgado: insieme ci portano in un’esperienza estetica irripetibile e necessaria, sulla bellezza del mondo e sulla nostra capacità di violentarla e spegnerla. Salgado viene restituito in tutta la sua sensibilità, nel suo incredibile talento, nella sua voglia di realizzare ciò che altri non possono e spesso neanche immaginano, Wenders in questa nuova vita da biografo di chi ama e ammira trova un’altra giovinezza. L’unione dei due ci porta uno dei più bei documentari della storia del cinema.
10. Nebraska di Alexander Payne
Alexander Payne gli Stati Uniti sa raccontarli bene. Furbescamente, come fece in Sideways, ruvidamente come in Paradiso Amaro (le Hawaii sono Usa, e lui ce lo dimostra), causticamente come in Election. Ma forse mai come in Nebraska ne ha colto spirito e contraddizioni, compiendo un viaggio iniziato più di dieci anni prima con A proposito di Schmidt. Lì il pensionato Jack Nicholson, schiacciato dall’essere divenuto improduttivo e marginale, cerca una nuova centralità familiare in un viaggio da Omaha (guarda un po’, Nebraska) a Denver. Qui, invece, il Nebraska è il punto d’arrivo di un sogno, che parte, a piedi, dal Montana. Terzo on the road per Payne, ed è il più bello. Perché Bruce Dern è magistrale (premiato non a caso come miglior attore a Cannes), perché il rapporto padre-figlio ha qualcosa di quello Anchise-Enea, ma soprattutto sa spiegare la civiltà statunitense meglio di qualsiasi analisi. C’è tutto: il sogno americano che è una truffa, una lotteria truccata; l’ossessione del pionierismo nella costruzione della propria persona; l’apparenza che inganna sempre, come nel tenerissimo, feroce finale. Una lezione di storia e antropologia, nella favola più semplice.
Bonus track: The Lego Movie di Phil Lord e Chris Miller
Serviva un posto speciale per un lungometraggio irresistibile come questo. Lord e Miller ci propongono una commedia di grande efficacia ma anche un film inaspettatamente politico, in cui il potere costituito è combattuto quanto i depositari di verità e giustizia che pretendono di indottrinare la plebe ignorante. E a liberare tutto e tutti alla fine è un uomo comune scambiato per l’eletto, l’unico che non pretende di essere superiore ma sa cosa vuol dire vivere.
Tutti pretendono di importi le istruzioni, ma chi ha giocato con i Lego sa quanto sia meraviglioso inventare con quei mattoncini. La vera rivoluzione non è la banalità di una collettività condotta da potenti o illuminati, ma la convivenza di piccole libertà. Piccole, magari, come quei meravigliosi pupazzetti gialli.